Scrivi qui la tua mail
e premi Invio per ricevere gratuitamente ogni mattina la nostra rassegna stampa

Il male oscuro e la fede. Parla Italo Cucci

Martedì, 04 Marzo 2014

3bIl male oscuro e la fede. Parla Italo Cucci

 

 «Papà, perché non mi hai detto che dovevo morire?» Non deve essere stato facile per Italo Cucci sentirsi fare questa domanda dalla figlia tredicenne, Benedetta, prima che una leucemia recidesse il legame con la vita. E non deve essere stato facile accorgersi che il figlio Ignazio, l’unico rimasto, è stato catturato dal male oscuro della depressione, in una forma grave che la scienza chiama schizofrenia. «Una cosa tremenda, peggio che morire», dice al telefono mentre sta per andare in studio.
Italo Cucci, 74 anni, riminese (anche se nato a Sassocorvaro), è uno dei volti più noti del giornalismo sportivo italiano. È stato più volte direttore del Guerin Sportivo, ha diretto Stadio e Autosprint. Compare spesso in televisione come commentatore di eventi sportivi. La figlia Benedetta se n’è andata poco dopo il suo ritorno dall’Argentina per il Mundial del 1978, il figlio è arrivato nell’estate del 192, quando l’Italia ha vinto i mondiali di Spagna. Lo sport e Cucci vivono un legame indissolubile. Nessuno, o forse solo gli amici intimi, sapevano quali storie di dolore paterno ci fossero dietro quella barba simpatica con l’accento da romagnolo verace. Fino a quando nelle settimane scorse non è uscito il libro Elettroshock. Sono ancora vivo. E la chiamano depressione (Minerva Edizioni). È un libro scritto a quattro mani con il figlio Ignazio, una sorta di diario comune della vicenda drammatica che li ha visti protagonisti. È stato un modo per ritrovarsi e riaccogliersi, visto che esasperato un giorno Ignazio ha gridato al padre: «Papà, tu non c’eri quando è venuto il buio».
Dopo l’adolescenza, per Ignazio arriva quello che lui appunto chiama il buio, che presto diventa popolato di tante “voci”, personaggi pubblici, famosi o della storia, con le quali lui si sente in rapporto reale più che con il padre. Comincia così l’affannosa e quasi disperata di una terapia risolutiva, ma spesso non si va oltre il solito miscuglio di psicofarmaci. Finché Cucci non si imbatte in un articolo il cui uno psichiatra di fama mondiale, il professor Giovanni Battista Cassano, di Pisa, che parla della malattia di suo figlio in un modo diverso da quello degli psicologi e psichiatri incontrati fino a quel momento: «Si ricorre allo stereotipo della schizofrenia, perché abbiamo perso la capacità di stare col malato, e riconoscere i veri sintomi della malattia. Ma il termine è superato, grossolano, traumatico».
L’articolo è l’occasione per cercare un consulto e il professor Cassano propone come rimedio una terapia d’urto, spesso archiviata come superata da molti medici: la terapia elettro-convulsivante, meglio conosciuta come elettroshock. Di qui il titolo del libro, che però è accompagnato da due sottotitoli importanti: Sono ancora vivo. E la chiamano depressione. Le scariche elettriche riescono ad allontanare le “voci” e oggi Ignazio vive a Pantelleria facendo il bibliotecario.
«Il libro – spiega Cucci – nasce da un motivo molto semplice. Da una parte era per mio figlio una sorta di terapia, la possibilità di estrarre dal buio della sua mente tutto ciò che si era confuso e nascosto. Dall’altra l’esigenza di far sapere agli altri, alle famiglie che vivono lo stesso problema, e sappiamo che sono tante, che non devono vivere la depressione di una persona cara come una vergogna, come qualcosa da nascondere. La prima medicina per la depressione è la verità, è il saperla guardare in faccia. La nostra storia, che sta volgendo verso un lieto fine, può essere d’aiuto ad altri perché non perdano la speranza. Sappiamo come molte di queste storie finiscano tragicamente. Volevano far capire che la depressione può essere affrontata, che c’è una speranza».
Il libro vuole anche testimoniare che non è vero che l’elettroshock distrugge la memoria. Italo e Ignazio hanno deciso di scriverlo quando un giorno il ragazzo è riuscito a ricordare nei dettagli la prima partita a calcio giocata a otto anni. E da quell’episodio è cominciato una sorta di viaggio a ritroso per riconquistare la vita perduta.
Dopo l’uscita del libro, in molto si sono meravigliati con Cucci: «Ma come, sembri sempre così sereno!». «Quando è accaduta questa cosa, ho cercato molto, ho chiesto consigli. Ho vissuto i miei momenti terribili. Poi, quando abbiamo scoperto la terapia d’urto ho ritrovato anche più serenità. Ma in tutto questo non ho mai perso la speranza e mi ha sostenuto molto la fede». Cucci usa un’espressione insolita: «La fede per me è stata un ricovero importante». La vicenda che ha vissuto deve essere stata una tempesta tale che l’immagine della fede a cui ricorre è quella del ricovero. E aggiunge: «Se non ci fosse stata la fede, saremmo finiti male».


Le vostre foto

Rimini by @lisaram, foto vincitrice del 15 febbraio

#bgRimini

Le nostre città con gli occhi di chi le vive. Voi scattate e taggate, noi pubblichiamo. Tutto alla maniera di Instagram