Sfaccendati o playboy, il giudizio sui felliniani vitelloni resta sospeso

Martedì, 11 Agosto 2020

Nessun condannato, nessun assolto. Per la prima volta nella sua ventennale storia, il verdetto della giuria popolare, nel processo di Villa Torlonia  a San Mauro Pascoli, si è concluso con un pareggio: 219 voti per l’accusa, 219 voti per la difesa.

Il giudizio sui vitelloni (non tanto il film di Federico Fellini, ma l’archetipo umano in esso rappresentato) rimane ancora una volta sospeso. Non hanno pienamente convinto il pubblico né le dotte, appassionate e puntuali invettive della giornalista Daniela Preziosi (del Manifesto, prossima a sbarcare nel nascente Domani), né le divagazioni di Gianfranco Angelucci, storico collaboratori di Fellini, nei meandri della filmografia del maestro riminese. La giuria ha seguito accusa e difesa in religioso silenzio, ma ha reclamato alla fine, come bonus per una serata altrimenti non esaltante, la lettura di un’intervista a Gamboun, al secolo Bruno Valeri, playboy di spiaggia che sentiva come irrinunciabile missione “punirne” anche venti al giorno, in qualsiasi luogo, la spiaggia, la stanza d’albergo o dove capitava, perché “esse lo chiedevano”. 

Secondo il presidente del tribunale popolare, Gianfranco Miro Gori, la trasposizione dai vitelloni felliniani ai playboy di spiaggia è opera di Sergio Zavoli, che una decina d’anni dopo l’uscita del film arrivò a Rimini per girare il documentario “I vitellini”, dedicato appunto ai giovanotti esperti nell’arte dell’imbarco. Al giornalista recentemente scomparso e ai suoi rapporti con Fellini, Gori ha dedicato la breve prolusione iniziale. 

Se in zootecnica il vitellone è il bovino che non diventerà mai il carducciano e lavoratore “pio bove”, ma viene semplicemente ingrassato perché le carni siano tenere in cucina, secondo la Treccani il film di Fellini del 1953 lo ha fatto diventare “un giovane di provincia, ozioso e indolente, che passa il tempo in divertimenti, privo di aspirazioni”.

Ed è su questo tipo umano, non tanto su Fellini, che il pubblico ministero Preziosi si è ferocemente accanito. Il regista è salvato perché si identifica con Moraldo, il più giovane della compagnia, l’unico che trova la forza e il coraggio di partire alla ricerca di una vita diversa. Per il resto il film è giudicato un monumento alla peggio gioventù maschile, i protagonisti sono persone renitenti alla crescita. Sono infantili, indifferenti, mammoni e maschilisti; bighellonano tutto il giorno, non lavorano e lanciano sberleffi (il riferimento è alla pernacchia e al gesto dell’ombrello di Alberto Sordi a un gruppo di operai) verso chi si guadagna il pane con il sudore della fronte. I vitelloni sono irredimibili, per loro non c’è speranza di cambiamento. Agli occhi di Preziosi hanno la grave colpa di non partecipare al grande romanzo civile del dopoguerra, dove tutti si sono rimboccati le maniche per ricostruire Il Paese. 

Ed è su questo punto che Angelucci ha costruito la sua difesa, prima di perdersi in un’aneddotica comunque piacevole da ascoltare. Il vitellone è chi non si è integrato, chi ancora insegue il suo sogno. È chi non ha accettato, come Chaplin in Tempi Moderni, di essere schiacciato dall’ingranaggio della società.  Forza la mano, Angelucci, e arriva a dire che il vitellone, nelle tragedie del Novecento, non sarebbe mai stato dalla parte degli oppressori e degli assassini. I vitelloni sono individualisti mediterranei, sono anarchici, sono romagnoli, sono simpatici. Il vitellone non segue la rigida morale da paese nordico, ma ama lasciarsi andare al dolce abbraccio del Cupolone. Non è poligamo, è monogamo ma promiscuo. E qui Angelucci si lascia andare ai fuochi d’artificio delle citazioni cinematografiche e felliniane, dove anche i personaggi di Satyricon e 8 e mezzo incarnano l’archetipo del vitellone

All’inizio della serata Gori aveva ricordato la risposta di Fellini all’invito del sindaco Ceccaroni per alcuni festeggiamenti a Rimini: “Sì, ma niente patacate”

Angelucci ha ricordato il doppio rifiuto delle lauree honoris causa offerta sia da Urbino che dall’Alma mater Studiorum. Magistrale la risposta al rettore di Bologna Fabio Roversi Monaco, nella quale Fellini spiega che, a ricevere una laurea per i film che ha girato, si sentirebbe “come Pinocchio decorato dal Preside e dai Carabinieri per essersi divertito nel Paese dei Balocchi”.

Forse la miglior sentenza sui vitelloni.