Giustizia riparativa, la storia di Agnese Moro e Franco Bonisoli
La giustizia riparativa “crea qualcosa di bello, di nuovo, come un’opera d’arte”, spiega Caterina Pongiluppi, responsabile servizio Mediazione Cooperativa Sociale L’Ovile di Reggio Emilia. Un’opera d’arte come il Grande Cretto che Alberto Burri ha plasmato sulle macerie di Gibellina, sul grande dolore per l’immensa tragedia del terremoto del Belice. "Costruire sul dolore. Non coprirlo. Un nuovo nasce da un passato. Non annullato o dimenticato. Anche perché, banalmente, non sarebbe possibile", sottolinea Pongiluppi, moderatrice dell'incontro “Vita e giustizia: sentieri di riparazione”, a metà febbraio nella cornice del cinema Tiberio di Rimini, con le testimonianze di Agnese Moro e Franco Bonisoli. Agnese è figlia di Aldo Moro, Franco protagonista della lotta armata degli anni Settanta, partecipò al sequestro dello statista. Quella di Agnese e Franco è una storia più unica che rara che in un mondo ideale sarebbe l’unica via possibile. In questo mondo è comunque una di quelle praticabili, con successo.
"L’opera costruisce su una ferita, o è essa stessa una ferita. Non pretende di nascondere la sofferenza. La accoglie così com’è. E’ ciò che accade nella giustizia ripartiva: l’accoglienza reciproca dell’altro, vittima e carnefice, nella sua essenza ferita". L’immagine del Grande Cretto ha accompagnato le testimonianze di Agnese e Franco.
Franco ha aderito alla lotta armata in un periodo in cui c’era “l’idea di una Resistenza non compiuta”, il “timore di un ritorno del fascismo, tra tentativi di colpi di stato, bombe sui treni, le bombe a piazza Fontana”. In quel clima, “c’era una parte consistente di persone che pensava di trasformare la società non attraverso forme democratiche, ma attraverso una rivoluzione”, l’uso della violenza quindi era ritenuto “possibile per affermare le proprie idee. Purtroppo ho partecipato attivamente”. L’addestramento lo inizia a 23 anni. In carcere arriva dopo quattro anni dall’adesione alle Br. Quattro ergastoli, 105 anni di pene, 40 anni di carcere. Poi una nuova vita fuori. Ma essere a posto con lo Stato non gli basta e cerca l'incontro con Agnese.
Franco Bonisoli: "Non si costruisce la pace facendo la guerra"
Nel 2010 va a trovarla a casa accompagnato dai mediatori. Il Franco che lei si aspettava era diverso da quello che si è trovata davanti. “Mi aspettavo un guerriero, un uomo pericoloso, indifferente al nostro dolore, come li avevo visti quando andavo a testimoniare. Immobile, stereotipato mostruoso, un fantasma. E invece vi siete resi conto anche voi di che persona è, piena di umanità, con un percorso coraggioso e doloroso. Il che non toglie niente di quello che lui è stato allora. Quello di trent’anni prima è stato una cosa, quello di adesso è un’altra". Lo dice lei di lui. Lei che all'inizio non ha subito accettato la proposta di aderire a un percorso di mediazione. "La giustizia riparativa non sana l'irreparabile, non mi ridarà mai papà". Ma sana da quelle che lei chiama scorie radioattive: disumanizzazione, immobilità, silenzio.
Agnese Moro: “L’incontro mi fa tornare a respirare”
"In carcere abbiamo 160 persone in media, e tutte cercano di riparare il male commesso. Nessuno ci riuscirà mai, perché, come diceva Agnese prima, ciò che rotto e rotto. Tutte le attività che si fanno sono volte a tirar fuori la parte positiva che ognuno di loro ha, fargliela vedere e fargliela riconoscere. Perché la sentenza, gli atti, le cose scritte gli fanno vedere solo quelle negativa", ha spiegato la direttrice del carcere di Rimini, Palma Mercurio, condividendo anche una sua esperienza personale e familiare che tanto fa cepire se si parla di "riparare" persone.
Franco Bonisoli: "Non si costruisce la pace facendo la guerra"
Franco Bonisoli ha aderito alla lotta armata in un periodo in cui c’era “l’idea di una Resistenza non compiuta”, il “timore di un ritorno del fascismo, tra tentativi di colpi di stato, bombe sui treni, le bombe a piazza Fontana”. Lo ha raccontato anche a Rimini, in febbraio in occasione dell'incontro 'Vita e giustizia: sentieri di riparazione' al cinema Tiberio, insieme ad Agnese Moro, figlia di Aldo, l'uomo che Francon contribuì a rapire. In quel clima, “c’era una parte consistente di persone che pensava di trasformare la società non attraverso forme democratiche, ma attraverso una rivoluzione”, l’uso della violenza quindi era ritenuto “possibile per affermare le proprie idee. Purtroppo ho partecipato attivamente”.
Franco entra nelle Brigate Rosse. Abbraccia una vita clandestina. Abbandona la famiglia, la comunità, la vita “normale”. Abbraccia una “logica di guerra, che disumanizza… come i crociati che per conquistare il Santo Sepolcro giustificavano la 'mietitura'”. Lo ha fatto “per fare quello che secondo me era il mio dovere: per costruire una società più giusta l’unica strada era distruggere lo stato”.
L’addestramento lo inizia a 23 anni. In carcere arriva dopo soli quattro dall’adesione alle Br. “Un’ipotesi che avevo considerato, assieme all’altra: morire sul campo di battaglia”. Da qui inizia una serie di processi, Genova, Torino, Milano, Roma, cui seguono condanne e “giustizia retributiva (quella classica, che prevede una punizione legale adeguata al reato, ndr) a tutto spiano”. Riceve quattro ergastoli, per 105 anni di pena. Ma l’effetto del carcere duro “è stato quello di renderci ancora più duri. L’unico modo per resistere a questa pressione era esercitare violenza. A Nuoro avevamo la pentrite (un esplosivo, ndr) e lo abbiamo usato in una rivolta”. Il carcere duro “non solo non cambiava, ma aveva permesso l’aggregazione molto forte tra noi che venivamo dalla lotta armata e le grosse bande della criminalità comune”. Le cose “sono andate avanti così per anni”.
Quella che Bonisoli chiama la sua “fortuna”, è stata una crisi che a un certo punto lo ha fatto dubitare della lotta armata. “E’ stata durissima. Ho iniziato sentire tutto il peso di quello che avevo fatto. Perché finché tu sposi la logica di guerra, tutto è giustificato. Ma quando quella logica viene meno inizi a vedere che c’erano delle persone dietro le divise, dietro i ruoli, dietro i politici, dietro i magistrati”. E poi, “non solo avevo rovinato tutta la mia mia vita, ma anche la mia famiglia, che aveva sofferto e le famiglie delle persone che noi avevamo ritenute nemiche”.
All’epoca non c’erano grandi possibilità. “Diventare collaboratore di giustizia significava tradire. Tradire significava diventare uno da uccidere”. Inizia uno sciopero della fame insieme a un altro brigatista che viveva lo stesso suo stato d’animo. Sul giornale leggono del convegno dei cappellani del 1983, con il cardinale Martini. “Leggemmo parole nuove, a cui non eravamo abituati. Si parlava di dignità umana delle persone detenute”. Cercano il cappellano del loro carcere, don Salvatore Bussu, che aveva tentato di avvicinarli, “ma noi avevamo semrpe evitato per ragioni ideologiche”. Gli chiesero maggiori informazioni sul convegno dei cappellani e lo informarono del fatto che avevano iniziato lo sciopero della fame. “Ci stupì perché si preoccupò visibilmente, umanamente. Io mi aspettavo invece che ci snobbasse per il fatto che noi lo avevamo evitato per anni”.
Dopo venti giorni di digiuno accade un fatto. Ricevono la visita di Marco Pannella. Don Bussu aveva informato vescovo e giornali che non avrebbe celebrato la messa di Natale in un carcere dove i “suoi fratelli stavano morendo”. Entro Capodanno le delegazioni di tutti i partiti avevano visitato il carcere di Nuoro. Il ministro di Grazia e Giustizia, Mino Martinazzoli, decide di rivedere la legge 90, il 41 bis. Gli ex brigatisti sospendono lo sciopero della fame. “L’ambiente del carcere cominciò a cambiare. Su di me questo ebbe un effetto deflagrante. Le condanne c’erano, le crisi c’erano, ma era possibile una risalita”. Nel 1986 fu varata la legge Gozzini. L’anno successivo la legge per la dissociazione dal terrorismo. “Permetteva di diventare collaboratori di giustizia senza dover denunciare i tuoi compagni, dichiarando il rifiuto della violenza”.
Ma quale fu il passaggio, fondamentale, che portò alla crisi di Franco? Bisogna fare un passo indietro e tornare sul continente. Al carcere Le Vallette di Torino, “dove presi il quarto ergastolo”. “C’era una forte pressione, c’eravamo noi delle Brigate Rosse, c’erano quelli di Prima Linea. Il direttore chiese di fare una commissione per individuare le problematiche e riportargliele. “Vediamo se riesco a risolverle", ci disse. Questo mi spiazzò. Mi aveva spostato il tavolo di gioco”. Furono favoriti i contatti con la componente femminile, i colloqui con l’esterno, anche senza vetri divisori. “Il nostro livello di belligeranza crollò. La possibilità di contatto con l’esterno ci aveva fatto capire che le nostre ideologie erano ferme e che il mondo invece stava cambiando. Consapevolezza che però chi non aveva girato tanti carceri come me, non aveva potuto sviluppare”.
In carcere Franco si sposa, trova lavoro, mette in campo una serie di attività, aiutato dalla comunità dei volontari. Esce, ritrova lavoro, inizia a fare volontariato a sua volta. “Ho cercato di restituire quello che avevo ricevuto, lavorando con ragazzi difficili. La mia vita è tornata normale”. Ma restava un problema di coscienza. E un peso nel cuore.
“Dal punto di vista retributivo avevo pagato tutto. Ero a posto con le leggi dello Stato. Ma restava una domanda: io ho pagato cosa e a chi?”. Da qui è nato il “desiderio di un dialogo con le persone. Riparare non era possibile, ma questo sì, senza voler fare forzature”.
Il tempo ha favorito il desiderio di Franco. Padre Guido Bertagna è uno dei mediatori che hanno portato all’incontro di Franco con Agnese Moro, la figlia di Aldo Moro, che Bonisoli contribuì a rapire. “Un incontro che non avrei mai immaginato potesse arrivare a quello che è ora: un rapporto di amicizia fra noi”. Pensava a un incontro in cui avrebbe potuto chiedere scusa, prendersi un insulto, alla fine stringersi la mano e poi ognuno per conto suo. E per ottenere proprio questo a un certo punto chiese ai mediatori presenti di lasciarli un attimo soli, lui e Agnese. Affinché lei si sentisse più libera nei suoi confronti, libera di dirgli tutto, qualsiasi cosa. Così nacque un'amicizia. “L’esperienza che abbiamo fatto è stata quella di uno sguardo alla pari, favorito dai mediatori, che hanno avuto un ruolo di equiprossimità tra di noi”.
Rispetto alla lotta armata, “io mi ritengo uno sconfitto da quell’esperienza - spiega Franco - soprattutto sul piano personale, non tanto quello politico militare. Direte: perché sono stato arrestato? Non mi interessa questo. La verità è che senza accorgermene, pensando di costruire un mondo più giusto attraverso l’uso della violenza, ho visto che la violenza ti trasforma e ti porta a negare, passo dopo passo, quelli che erano gli ideali per cui stavi combattendo. Il paradosso è proprio questo: non si può costruire la pace facendo la guerra. Il mondo di pace va costruito facendo la pace e vivendo la pace”.
Filomena Armentano
Miramare, un giorno a scuola tutti in carrozzina
Un esempio di integrazione al contrario si è svolto presso la Scuola secondaria di primo grado Agostino Di Duccio dell'Istituto Comprensivo Miramare di Rimini. Nella classe 3E lo studente Maicol è da tempo in carrozzina e le docenti: Chiara Ferri, Roberta Lo Vecchio e Diletta Pantani hanno proposto ai suoi compagni di condividere una giornata di scuola svolgendo qualsiasi attività vincolati alla carrozzina, sia docenti sia studenti.
L'iniziativa definita "seduti per un giorno" è stata accolta con entusiasmo dai giovani studenti, ma ha trovato più di un ostacolo burocratico alla realizzazione e, quando sembrava impossibile compierla, con fermezza essi stessi hanno scritto e consegnato personalmente la richiesta alla dirigenza che l'ha finalmente accolta.
Nessun ostacolo invece nella realizzazione pratica grazie all'immediata risposta di Riviera Basket Rimini che disputa il campionato nazionale di serie B in carrozzina ed opera intensamente in ambito sociale per divulgare la pratica sportiva tra i diversamente abili che ha coinvolto il suo attivissimo sponsor Sanitaria Senza Limiti Uprise di Riccione la quale ha immediatamente messo a disposizione 30 carrozzine ed il gioco è fatto.
Senza remore o perplessità, tutti seduti con entusiasmo per confermare il profondo rispetto e la totale uguaglianza tra loro, i ragazzi hanno mostrato il valore e la solidità dei loro principi e rafforzato, qualora ce ne fosse bisogno, la piena condivisione con Maicol che ha apprezzato tantissimo che i suoi compagni si siano messi "alla sua altezza".
Una giornata intensa ed emozionante come lo sono tutte quelle nelle quali Riviera Basket Rimini scende in campo: sia sul parquet, sia nella società civile e non finisce qui: alla prossima partita casalinga dei biancorossi tutta la classe andrà a tifare in palestra per un'altra vittoria.
Agnese Moro: “L’incontro mi fa tornare a respirare”
L’incontro tra Franco Bonisoli e Agnese Moro risale alla prima parte del 2010. Lui va a trovarla a casa accompagnato dai mediatori ed è diverso da come lei se lo aspetta. “Mi aspettavo un guerriero, un uomo pericoloso, indifferente al nostro dolore. Come li avevo visti quando andavo a testimoniare. Immobile, stereotipato, mostruoso, quelo che mi aspettavo era in realtà un fantasma”, racconta Agnese al teatro Tiberio di Rimini,insieme all'ex brigatista Franco Bonisoli, in occasione dell’incontro ‘Vita e giustizia: sentieri di riparazione’ nel febbraio 2024. “E invece... vi siete resi conto anche voi di che persona è”, dice al pubblico. “Piena di umanità, con un percorso coraggioso e doloroso. Il che non toglie niente di quello che lui è stato allora. Quello di trent’anni prima è stato una cosa, quello di adesso è un’altra. La prima cosa che mi ha insegnato questo incontro è che l’umanità non va perduta. Anche se hai fatto cose tremende, questa umanità può tornare”. Agnese è figlia di Aldo Moro, Franco partecipò al sequetro di suo padre.
Per Agnese, il percorso di giustizia riparativa ha corrisposto all’“incontro con il loro dolore”. E' stato “molto importante perchè per me il dolore era solo mio: sono io che ho perso qualcuno. Scoprire il suo dolore ha rimesso in discussione tutto. Questa è una delle possibilità della giustizia riparativa”.
Sono 14 anni, racconta Agnese, “che rifletto sulla parola ‘riparativa’. Resta piena di mistero. Va presa molto sul serio, bisogna cercare di capirla senza semplificazioni”. Agnese richiama l’esempio dell’arte giapponese di riparare impreziosendo con l’oro ciò che si è rotto. “Molto suggestiva come immagine, si usa spesso per descrivere la giustizia riparativa, però non è così”. Perché “mio padre non si può riparare. Non tornerà mai. Ogni atto di violenza, piccolo o grande, lascia dietro di sé l’irreparabile”.
L’irreparabile, spiega Agnese “lascia delle scorie che io chiamo radiattive perché continuano a provocare danni nel tempo finché non arriva qualcuno a trattarle adeguatamente, a disinnescarle”.
Agnese non vuole, sotolinea, sottovalutare la giustizia retributiva,“fermare le persone che hanno sbagliato, giudicarle in modo giusto e fare delle sentenze”. Tuttavia, la tentazione che a volte può capitare a una vittima di pensare che dopo la condanna dell’assassino si sentirà meglio “è un’illusione” perché l’irreparabile “rimane lì, non se ne occupa nessuno. Il tempo non fa niente, accoglie e ingigantisce le scorie. Genera cose terribili come l’immobilità: il fatto del passato non è mai nel passato, è continuamente presente”.
Per loro natura, le scorie radioattive non sono solo di chi “le ha prese, ma anche di chi le ha date. L’irreparabile colpisce in egual misura, anche se in maniera diversa, chi ha agito la violenza e chi l’ha subita. Ognuno dei due si deve confrontare con quello che l’irreparabile gli ha lasciato”. Il che genera uno stato di immobilità. Per lunghi anni “per me mio padre veniva rapito ogni giorno, moriva di nuovo ogni giorno, come venivano rapite le persone care della sua scorta, e nessuno li aiutava”. E con l’immobilità “rimangono vivi tutti i sentimenti che si generano dal fatto, sentimenti che prima non avevi. Odio, rancore, disgusto, orrore, senso di colpa… Sentimenti che si rafforzano nel tempo”. Sentimenti che "senti il dovere di non mostare per non contaminare chi hai intorno, sentimenti che vuoi che muoiano con te. Stati zitto cercando di proteggere. L’ho fatto con i miei figli. Avevo il terrore che loro potessero pensare che se fai una vita onesta e per bene puoi essere colpito”, come era successo al nonno che non hanno conosciuto. Il silenzio, come le scorie radioative non è inerte. “Urla".
Accanto a immobilità e silenzio, si fa avati anche un senso di “ingombro: sei pieno di fantasmi, dei fantasmi di loro (guarda Franco, ndr), i fantasmi di chi non ha aiutato, di quella ragazza di 25 anni, che ero io all’epoca e che non c'è più. E tutto questo appesantisce, toglie spazio per fare altro. Io ho fatto una vita normalissima, un milione di cose, ma il mio mondo interiore è stato esattamente questo. Un mondo interiore che per motivi diversi è esattamente lo stesso loro (riguarda Franco, ndr)”.
Il sangue versato non lascia mai il tempo che trova. "Per me prima il sangue era quello delle mestruazioni, un sangue che parla di vita". Poi è diventato "il sangue che ha toccato mio padre, in tanti modi, il sangue degli altri che sono morti. Nemmeno questo sangue è inerte. Invade tutto. Quello che è stata la vita di tuo padre, la tua vita quando lui c'era. Anche quando guardavo la foto più tenera e carina, lui che mi tiene in braccio da piccola, per me era piena di spade. Quindi anche il passato buono, quello che tu hai vissuto con la persona che amavi, è lo stesso di prima ma è contaminato da quello che è successo".
L’ultima scoria radioattiva che come le altre "è la stessa per noi e per loro, è la disumanizzazione, come raccontava Franco. L'altro che lui colpiva per lui era diventato un simbolo, una funzione. Lui mentre colpiva è diventato un militante, una cosa. Anch'io sono diventata una cosa: una vittima. In quanto vittima dovrei rispettare precise caratteristiche, devo comportarmi in un certo modo e solo in quel modo posso essere. E loro (gli attentatori,ndr) sono i cattivi per sempre. Purtroppo la nostra comunità ci guarda ancora tanto in questo modo".
E quindi la giustizia riparativa?
"Non fa niente per l'irreparabile. Mio padre non me lo ridà”. Però “può agire sulle scorie radioattive. Trattarle, disarmarle, renderle non più padrone delle persone, può sgombrare i fantasmi, togliere il sangue, ridare parole, restituire umanità”. Per Agnese è un regalo “che per me loro sono amici. Sono i miei amici difficili. Non sono i cattivi per sempre. Hanno dei nomi, sono delle persone. Io per loro non sono la vittima, un pezzo di storia. Io sono Agnese. Poter essere umani, avere il permesso di essere semplicemente umani è una bellissima cosa”.
La giustizia riparativa fa in modo “che qualcuno ci venga a cercare. Siamo stati cercati uno per uno. Qualcuno ci ha detto: guarda, forse c'è la possibilità di vivere in un altro modo. E per me è stata una novità molto grande perché anche se all'inizio ho detto di no, ho subito capito che a qualcuno interessabva del mio dolore. In 31 anni nessuno mi aveva chiesto come stessi e invece Guido era venuto proprio per questo. Ho capito che lui quel dolore che manteneva vive le scorie, avrebbe potuto ascoltarlo, guardarlo, toccarlo e non sarebbe morto. E mi sono convinta che loro (gli amici difficili, ndr) non sarebbero morti se io avessi detto delle parole su quello che provavo”.
La giustizia riparativa è quindi, “in luogo in cui tu puoi incontrare l’altro, lo puoi guardare, puoi sentire delle parole, puoi dire delle parole perché è un luogo sicuro, perché è un luogo libero, che è la cosa più importante. Io mi sto ancora domandando: perché sono venuti? Tutti loro hanno scontato la loro pena e non mi devono niente, non devono niente a voi, non devono niente a nessuno. E allora perché vieni a fare una cosa dolorosa? Perché in fondo io sono un rimprovero vivente. Uno guarda la mia faccia e pensa: caspita cosa ho combinato. E io perché vado a trovare quelle persone che sono stati i fantasmi di tutta la mia vita? Ci vado perché ci devo andare, perché la cosa normale è che io ci vada. La cosa anormale è che io seguiti a stare a casa mia a covare rancore nei loro confronti, a rigirarmi dentro le mie ferite. Anche se invece tutti ci convincono che è questa la cosa normale”.
L'esperienza di Agnese Moro è che “dentro di noi cè qualcosa, che no so chiamare, che ci costringe a cercare vita. E la vita sta nel fatto che se tu mi hai fatto un torto io ti voglio guadare, voglio stare con te, ti voglio rimproverare, ti voglio dire quello che mi hai tolto, e voglio ascoltare le parole che tu ritieni, anche se mi fanno male. Io voglio, ho bisogno di quest’incontro perché senza quelle scorie radioative non si fermeranno mai e il mio mondo resterà un mondo immobile, chiuso, silenzioso”.
E allora accogliendo l'incontro può accadere che “io mi sono ripresa il passato. Adesso, quando guardo le foto di mio padre che mi teneva in braccio da bambina mi dispiace, perché avrei voluto che avesse potuto tenere anche i miei figli, però quel sangue non c'è, sono pulite. Quei 25 anni sono tornati ad essere i mei e i suoi. non c’è il dopo. Mio papà mi manca, mi mancherà sempre, ma il dolore che provo è un dolore disarmato, un dolore che non farà male più a nessuno, che non mi impedirà di pensare che posso anche vivere”.
Come tornare a respirare. “Potrà sembrare stupido, ma ora posso fare un respiro completo. Come puoi fare un repiro completo quando una persona che amavi non respirerà più? O nel caso loro: come puoi fare un respiro completo quando una persona che tu hai colpito non respirerà più? Fare un respiro completo allora significa capire che loro non possono ritornare, ma io ci sono, io vivo e posso vivere davvero buttando via tutti questi pesi senza scordare nulla, senza abbandonare nullla, senza semplificare nulla”.
Perché “insieme abbiamo guardato quell’inferno, insieme abbiamo guardato quel’orrore. Lo portiamo insieme a fa parte della vita. E il male non è una forza iperuranica che domina il mondo. Il male è solo un fatto di uomini. Siamo noi il male. Scegliamo una cosa, ma possiamo sceglierne un’altra. Il male possiamo non sceglierlo. E i sentimenti, allora, sono anch’essi disarmati. Possiamo vivere con degli amici meravigliosi. Alla mia famiglia posso dire delle parole, condividere quelli che sono stati i miei sentimenti, di come ho vissuto quei 55 giorni, di cosa hanno significato per me. Ho avuto la capacità di dirgliele quelle parole. Loro non sono morti per averle ascoltate. Possiamo vivere insieme”.
Filomena Armentano
Per un nuovo parco Ausa
Un progetto di ampio respiro, innovativo, per riqualificare e valorizzare un vasto polmone verde della città. Avanza il progetto di riqualificazione paesaggistica del vasto parco urbano lineare che si estende da via Euterpe a Piazzale Medaglie d’Oro, che comprende i parchi Giovanni Paolo II, Poderi della Ghirlandetta, Fabbri, Bondi, Cervi, Callas e Renzi. Il progetto è al centro di un Masterplan paesaggistico generale stimolato e coordinato da Anthea e dal Comune di Rimini che suggerirà le linee guida per la rigenerazione di un’infrastruttura verde che rappresenta un corridoio ecologico fondamentale per Rimini.
Il parco - conosciuto correntemente solo come parco Ausa o parco Cervi - rappresenta un’arteria fondamentale per la mobilità dolce e uno dei principali polmoni verdi della città: un parco lineare di 283.479 metri quadri che attraversa in direzione nord ovest - sud est Rimini e occupa l’antico alveo del torrente Ausa che storicamente lambiva e delimitava il nucleo urbano nella porzione sud insieme al fiume Marecchia nella porzione nord, oggi parco XXV aprile, più conosciuto, proprio per le sue origini, come parco Marecchia. Nel secolo scorso furono realizzati importanti interventi per garantire la sicurezza idraulica alle aree urbanizzate ed entrambe le foci dei due corsi d’acqua furono deviate. Oggi dove scorrevano i fiumi rimangono due parchi che svolgono una importante funzione nel sistema ecologico ambientale provinciale ed urbano, essendo i due principali corridoi ecologici di connessione entroterra mare.
Con il Masterplan l’Amministrazione si propone una riqualificazione dell’intero parco perseguendo alcuni obiettivi specifici come rafforzare il ruolo di corridoio ecologico urbano del parco lineare, ottimizzare il sistema dei percorsi, migliorare l’accessibilità e le connessioni con il tessuto urbano e garantire la piena fruibilità in sicurezza degli spazi.
In funzione dell’ampiezza dell’intervento, l’Amministrazione ha stabilito di procedere con tre stralci successivi. Il primo è quello che comprende l’area di parco urbano tra Via Roma e Piazzale Medaglie D’Oro, di cui la Giunta comunale a fine dello scorso anno ha già approvato il documento di fattibilità delle alternative progettuali. Questo primo stralcio diventerà poi il progetto pilota, funzionale quindi a definire principi e modalità di intervento per gli stralci successivi. L’obiettivo è quello di realizzare questo primo lotto entro l’estate 2026.
Il progetto prevederà in linea generale l’implementazione delle alberature e degli arbusti, il potenziamento dei percorsi ciclabili e pedonali, la creazione di nuovi punti di aggregazione e di funzioni (aree giochi per bambini e sportive, per la sosta, area sgambamento cani). Si interverrà inoltre sull’illuminazione, attraverso scelte a consumo energetico ridotto ma in grado di valorizzare i punti di particolare interesse e migliorare la sicurezza durante le ore serali. Saranno infine valutate soluzioni come ad esempio il desealing in grado di ridurre l’impermeabilizzazione dei suoli e gli sprechi della risorsa idrica.
Le caratteristiche del Masterplan
Il Masterplan si inserisce nelle attività del Piano del Verde per la città che Anthea e l’Amministrazione comunale stanno portando avanti e che stabilisce gli obiettivi in termini di miglioramento dei servizi ecosistemici e di mitigazione e adattamento al cambiamento climatico, gli interventi di sviluppo e valorizzazione del verde urbano e periurbano a lungo termine.
Lo sviluppo del Masterplan è stato affidato agli architetti paesaggisti Marialuisa Cipriani, Filippo Piva e Matteo Zamagni che, con l’ausilio dei progettisti del concept luci Nevio Cavina e Devis Lombardi, hanno definito gli elementi di trasformazione e progettato la riqualificazione a partire dalla concertazione di due livelli di esigenze: da un lato la necessità di rendere il parco fruibile in sicurezza e praticabile al meglio; dall’altro la volontà di esplicitare le origini dell’area.
Il concept che ha ispirato la progettazione è, infatti, l’acqua che nella memoria collettiva è ancora una presenza viva. Un grande segno sinuoso e serpeggiante segna il parco nella sua lunghezza evocando l’alveo del torrente non più presente. Su questa struttura, che evoca il sistema naturale a memoria del fiume, si innesta l’articolazione più geometrica della rete dei percorsi e delle aree funzionali.Il Masterplan individua nel parco ambiti distinti per caratteristiche paesaggistiche e per vocazioni.
AREA A MARE: il tratto compreso tra Via Roma e Piazzale Medaglie D’Oro ha nel percorso ciclopedonale l’elemento prevalente, dunque la vocazione principale è quella di accesso al mare.
IL PARCO DELLE MURA: il tratto compreso tra Via Roma e Via Circonvallazione Meridionale è caratterizzato dalla presenza delle mura storiche e dalla prossimità con l’Arco D’Augusto.
IL PARCO URBANO: il terzo tratto compreso tra Via Circonvallazione Meridionale e la porzione tangente a Via Stegani e Via Del Centino tocca quartieri molto popolosi e ricchi di attività. In questa porzione il sedime del parco è più esteso, accogliendo funzioni ricreative tipiche dei parchi di quartiere.
IL PARCO DEI LAGHI: l’ultimo tratto comprende la porzione tangente al Palacongressi e la restante parte fino a Via Euterpe. I due specchi d’acqua e dunque il contatto con la natura e l’acqua diventano elementi dominanti.
“Con questo Masterplan poniamo come prioritaria la riqualificazione organica di un parco urbano che, a prescindere dai diversi nomi con cui siamo abituati a riconoscerlo, rappresenta un elemento identificativo per la città e un punto di riferimento per la vita dei diversi quartieri di cui è parte integrante – sottolinea il sindaco Jamil Sadegholvaad – E’ dunque un tassello indispensabile delle riqualificazione urbana della nostra città che ha nella naturalizzazione dei luoghi e nella valorizzazione degli spazi aperti e del verde un tratto distintivo. Il progetto vuole intervenire su quella che è ha tutti gli effetti una vera cerniera ecologica che collega il mare alla città, agendo in primo luogo su qualità del verde, su illuminazione e servizi, quindi per una migliore fruibilità per tutti, in sicurezza. Non solo: attraverso soluzioni innovative proseguiamo in quel percorso che già abbiamo anticipato con il Parco del Mare, orientando la progettazione alla sostenibilità ambientale e dunque coniugando la riqualificazione urbana al contrasto ai cambiamenti climatici. Stiamo dunque parlando di un progetto qualitativamente di alto livello per restituire il parco nella sua pienezza alla città”.
Giustizia riparativa, Mercurio: “Possiamo creare relazioni vitali”
“In carcere abbiamo 160 persone in media. Tutte cercano di riparare il male commesso, ma nessuno ci riuscirà mai, perché, come diceva Agnese prima, ciò che rotto e rotto”. La direttrice del carcere di Rimini, Palma Mercurio, è intervenuta al cinema Tiberio di Rimini all’incontro ‘Vita e giustizia: sentieri di riparazione’, con Agnese, che Mercurio cita, figlia di Aldo Moro, e Franco Bonisoli, protagonista della lotta armata degli anni Settanta, partecipò al sequestro dello statista.
“Tutte le attività che si fanno dentro, tutto il lavoro del nostro staff, delle psicologhe, è volto a tirare fuori e sostenere la parte positiva che ognuno di loro ha, a fargliela vedere e riconoscere. Perché di fatto la sentenza, gli atti giudiziari, le carte scritte, mostrano loro solo laparte negativa”. E, come diceva don Oreste Benzi, “l’uomo non è il suo sbaglio”. “La parte negativa è un momento, un frammento, un pezzettino, più o meno lungo, anche se può essere durato tanti anni”, spiega Mercurio.
Quello di Rimini, aggiunge EMrcurio è un carcere di media sicurezza, con detenuti che non hanno pene superiori ai cinque anni, “per reati abbastanza comuni. Però sono tutte storie”, sottolinea. “Chi deve essere riparato in carcere”, dice proprio riparato, “è prima di tutto una persona a pezzi a causa delle esperienze di vita precedenti. Spesso si tratta di bambini che non hanno avuto buon esempio in famiglia, con la società fuori che non è riuscita a fare da cerniera, a riparare questa questa condizione. Quindi siamo chiamati a farlo tutti noi in carcere”.
Spesso è in carcere, sottolinea Mercurio, “che per la prima volta la persona gode di un’equipe che lo aiuta nel lavoro di recupero”. Sono persone impaurite dalla possibilità di uscire, fa notare Mercurio, “perché hanno ancora addosso un'etichetta: il ladro, il tossico, l'estorsore, rapinatore, eccetera”. E invece, la sfida, è che “quando escono devono essere uomini”.
Tuttavia, l’amministrazione penitenziaria “da sola non è capace, non è in grado di fare questa cosa". Perché, visto che in fondo sarebbe il suo compito? "Resta quel pianeta chiuso solo in se stesso e non comunica col territorio che abita. Così non serve a nulla”. Ogni carcere è fisicamente in una realtà particolare, in un comune, in una storia, in una regione, “e deve far entrare il più possibile la città dentro perché la funzione di ricucitura, di riparazione dell’anima è una funzione che ha necessità di tutto il territorio a cooperare”.
La scelta della giustizia riparativa, “per chi si trova nel nostro carcere è una scelta del tutto spontanea, e non porta a nessuno sconto di pena. Le persone che hanno aderito a questi percorsi con esperti nella mediazione sono davvero grate, perché sentono di aver visto una parte di sé dalla quale ricominciare. Come nuove, possono donare qualcosa agli altri, che possono essere utili al tessuto sociale. Non sono più solo solo definite da quel reato, da quell’articolo, di giornale, da quella sentenza”.
Palma Mercurio ha una storia particolare, “legata al carcere sin dalla mia infanzia”, spiega, perché il suo papà era comandante della polizia penitenziaria e la famiglia lo ha seguito “prima in Sicilia, poi al nord”, dal 1955 al 1995: quarant’anni. “Io faccio questo lavoro perché me lo ha chiesto lui”. La sua carriera è iniziata nel 1997, ventisei anni fa.
“Ho incontrato persone con reati comuni che si sentivano in colpa per avere ottenuto una misura alternativa, perché, come dice Agnese, il reato anche un assassinio, può essere frutto di un pensiero che attraversa la testa in un momento, poi tu sconti la tua pena, magari sei addirittura talmente positivo da avere avuto diritto alla misura alternativa, ma ti senti maledettamente in colpa”. Da qui, spiega la direttrice, molti suicidi. Solo pochi giorni fa il caso di un deteuto semilibero a Livorno. “Perché si suicida un detenuto semilibero, una persona che ha un piede fuori, anzi tutti e due perché è una misura alternativa? Vuol dire che c'è dentro la sua anima qualcosa che non funziona. C'è un senso di colpa che niente può colmare”.
Mercurio racconta un’esperienza personale. “L’uomo, semi libero, aveva trovato lavoro, risarcito il figlio della vittima, a cui aveva comprato un appartamento, ma non si dava pace. E’ riuscito a farlo solo dopo aver inziato un percorso di giustizia riparativa con un mediatore esperto e ne è venuto fuori. Il figlio della vittima ora lo chiama zio”.
Ancora una storia personale, Mercurio torna a citare la sua famiglia, suo padre, adesso 89enne. "Un uomo dall'umanità pazzesca. Ha gestito carceri in cui si trovavano anche detenuti pericolosi. Non posso dire in quale, un gruppo di detenuti aveva costruito un tunnel per evadere, eravamo negli anni Settanta, nel 1975. Scavando sono arrivati al confine con il cortile di casa nostra. Lì si sono fermati perché hanno sentito noi bambini parlare, soprattutto mio fratello che giocava col pallone contro quel muro. Non se la sono sentiti di andare avanti”.
E’ stato uno dei detenuti, successivamente a raccontare tutto. “Sono passati più di quarant’anni, quella persona adesso fa anche il volontario in istituti del centro Italia”. E’ dalla telefonata ricevuta da una collega che Mercurio ha scoperto come tra il padre e questa persona sia nata un’amicizia. “Non finiscono mai di raccontarsi la durezza di quei giorni, ma anche la bellezza di avere questo rapporto adesso. Vanno a cena, si trovano d’estate. Mio papà lo sente come un regalo per lui, questa amicizia sincera di una persona che, come dice, gli era stata affidata dallo Stato per custodirla. Non finisce mai di raccontarmi tutte le cose positive che ha imparato dai suoi amici che erano in carcere, di come bisogna rispettarli. Questo per me è giustizia riparativa”.
Far tornare in vita “è impossibile, come diceva Agnese Moro, a cui tutti dobbiamo inchinarci per la storia che ha avuto. Si possono, però, e si devono ricostruire relazioni vitali, che ci facciano andare avanti. Vogliamo che la gente viva, che chi è in carcere nel momento peggiore della sua vita, scopra dei ganci per poter ricominciare. Forte della sua storia, per continuare a fare del bene agli altri, ad essere di esempio”. Nel carcere di Rimini “abbiamo 160 persone che aspettano questo, che non sono più quel titolo di giornale che li ha portati dentro. Sono altre persone con un’altra storia. Nuove”.
Filomena Armentano
Nuovo stadio senza pista di atletica, opposizioni all'attacco
Cl, messa in cattedrale per gli anniversari di don Giussani e della Fraternità
In occasione del 19esimo anniversario della salita al Cielo del Servo di Dio don Luigi Giussani (22 febbraio 2005) e del 42esimo del riconoscimento pontificio della Fraternità di Comunione e Liberazione (11 febbraio 1982), oltre che per la ricorrenza dei 70 anni dalla nascita del movimento di CL, è in programma la celebrazione di Messe in Italia e nel mondo, presiedute da cardinali e vescovi.
A Rimini la celebrazione sarà presieduta dal Vescovo Nicolò Anselmi in Basilica Cattedrale, venerdì 23 febbraio alle ore 19.
L’intenzione delle Messe è la seguente:
Grati per il dono del carisma donato dallo Spirito Santo a don Giussani, desideriamo servire con tutte le nostre energie la Chiesa e i suoi pastori, certi che solo nella sequela quotidiana a Cristo e al Suo Vicario è possibile vivere la vera unità tra noi e servire il bene degli uomini del nostro tempo.
Maria Regina della pace guidi il cammino di tutto il movimento e interceda per la pace nel mondo.
Davide Prosperi (presidente della Fraternità di CL) ha affermato: “Consapevoli del compito che ci è affidato per contribuire alla costruzione della Chiesa e per l’annuncio al mondo della speranza che Cristo è per la vita di ogni uomo, desideriamo far memoria di don Giussani - e della storia generata dalla sua amicizia con coloro che l’hanno seguito - tenendo lo sguardo fisso sulle parole che Papa Francesco mi ha rivolto nella lettera inviata al movimento in occasione di queste ricorrenze: «Ho particolarmente a cuore di raccomandare a Lei e a tutti gli aderenti di avere cura dell’unità tra voi: essa sola, infatti, nella sequela ai pastori della Chiesa potrà essere nel tempo custode della fecondità del carisma che lo Spirito Santo ha donato a don Giussani: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, cosi amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri”».
Spiagge all’asta ed effetto Veneto. Biagini: “E’ possibile evitarlo”
E' possibile gestire le aste per le concessioni balneari evitanndo l'effetto Veneto. Il metodo, passo dopo passo, è delineato dall'avvocato Roberto Biagini, presidente del Coordinamento nazionale mare libero (Conamal). “Il sindaco di Rimini dovrebbe attivare i controlli di competenza e chiedere altrettanto alle altre autorità che hanno il compito di intervenire sul demanio marittimo, Procura della Repubblica compresa”, spiega l'ex assessore al demanio. “Le concessioni sono scadute il 31 dicembre 2023, le proroghe al 31 dicembre 2024 sono state dichiarate illegittime dalla giurisprudenza e quelle "tecniche" sono state emanate senza che ve ne siano i presupposti, e cioè che le pubbliche evidenze fossero già iniziate”, per questo secondo Biagini sarebbe necessaria l'attivazione dei controlli. “La verifica deve riguardare la legittimità dell'esistente, in particolare dei manufatti presenti da Torre Pedrera a Miramare, in quanto la cessazione delle concessioni trascina con sé l'inefficacia di titoli edilizi legittimanti e anche questo dovrebbe essere oggetto di controllo a prescindere dal titolo concessorio soprattutto a Rimini Nord”.
In che senso? Se i manufatti sono legittimi, come fanno a diventare illegittimi con la fine delle concessioni? “Cabine e chisochi bar attuali hanno titoli edilizi, vale a dire permessi a costruire ex concessioni edilizie, che ad oggi li legittimano da un punto di vista edilizio? Nella zona Sud potrebbe esserci una sorta di legittimazione dovuta ad un "Progetto Pilota" degli anni 70, mentre la zona Nord potrebbe essere più problematica”. Problematiche simili potrebbero essere rilevate anche per le licenze di stabilimento balneare e di pubblico esercizio. “Non si può solo controllare quello che c'è ‘a monte della spiaggia’ e lasciare il demanio marittimo come ‘porto franco e terra di nessuno’". Il primo cittadino di Rimini, “ha già tutti i poteri amministrativi per evitare quello che succede a Jesolo senza scomodare la vergognosa inerzia politica dell'attuale governo, del resto uguale a quelli "politici" che c'erano prima, sul tema concessioni”.
La seconda mossa che si potrebbe mettere in atto è inserire nel piano dell’arenile “aumenti le spiagge libere ad una percentuale del 40% del totale rispetto all' attuale insignificante 9% alternandone l'ubicazione con quelle in modalità concessoria”. Partendo proprio dalla situazione riminese, con le percentuali di partenza indicate? “Semplice. Il Comune ha piena discrezionalità nel decidere la pianificazione e con il nuovo piano è previsto che si deve azzerare tutto, stabilimenti e chioschi. Inoltre, con le concessioni scadute i concessionari, per contratto, devono liberare l’area. Vengano quindi individuate zona a modalità libera alternate a quelle in modalità concessoria fino a raggiungere tale percentuale. Non si lede nessuna posizione degli ex concessionari in quanto essi non godevano di nessuna aspettativa giuridicamente tutelabile a rimanere li dove sono e vedersi rinnovato il titolo”.
Restando nell'ambito delpuano spiaggia, c’è poi la possibilità di ridurre l’estensione dei bagni (forse un po’ il contrario di quelle che sta accadendo con gli accorpamenti?) e e impedire “allo stesso soggetto di avere la titolarità di più concessioni”, in modo "da renderle meno appetibili per i ‘grossi gruppi’”, e mettere i bagnini riminesi in posizione di poter competere. Infine, “i chioschi bar devono rimanere quello che la legge prevede e cioè ‘opere leggere di facile rimozione’ stagionali e non strutture come quelle di adesso che fanno concorrenza sleale a chi svolge ristorazione tutto l' anno in territorio urbanizzato ed sottoposto a rigidi controlli su tutto”.
Passando alla questione dei titoli concessori, il sindaco, spiega Biagini, può inserire nelle concessioni “il divieto di sub ingresso e di affidamento, in modo che l'attività venga esercitata direttamente e personalmente dall'originario aggiudicatario e in modo da evitare ‘pericolosi e non chiari’ passaggi di denaro”.
Tornando al caso Jesolo, rispetto “a quello che leggo - va avanti Biagini rivolgendosi ai balneari - a contendersi le zone di arenile, sono stati i concessionari uscenti e imprenditori turistici tutti italiani. Se per molto tempo il timore più diffuso era quello che le pubbliche evidenze potessero far arrivare i grandi gruppi internazionali, nella realtà la concorrenza è stata tutta locale. È già sparito, quindi, l'aggettivo ‘straniere’ che accompagnava il sostantivo ‘multinazionali’”.
In definitiva, per il Coordinamento nazionale mare libero, “lavorando seriamente sulle condizioni di concessione e non lanciando nel racconto pubblico false ed infondate paure sparirà anche il sostantivo, basta volerlo e prevenirlo e non piangere lacrime di coccodrillo”. Come, oltre a inserire il divieto di sub ingresso? “Visto che vi è molta sensibilità sul chi si occuperà e chi sorveglierà le spiagge libere, che si impongano nelle procedure di gara somme in aumento del canone base (materia statale) che possano servire al Comune per pagare il controllo (ad iniziare dal salvamento), e i servizi sulle spiagge libere. Si può fare tutto seriamente, basta mettersi a sedere”.
Coppa Davis in mostra a Rimini
“In una stagione sportiva particolarmente entusiasmante e ricca di soddisfazione per il tennis italiano, è con ancora più fierezza che annunciamo
"L’esposizione della Coppa in città rappresenterà un
Sarà dunque una sorta di meta-festa sportiva dentro il più grande evento dedicato al wellness, al fitness e all’attività fisica. Un'occasione unica per far toccare con mano ai cittadini e ai tanti visitatori e amanti del benessere questo iconico trofeo tennistico, che torna in Italia dopo ben 47 anni di attesa dal lontano 1976, quando furono Adriano Panatta e Paolo Bertolucci a fare incetta di successi.
All’interno del contesto fieristico verrà allestito uno spazio apposito per dare lustro non solo alla Coppa e al capolavoro realizzato dalla squadra italiana in Spagna, ma, al contempo, per valorizzare in chiave più ampia la magia e il fascino del tennis, spesso metafora di vita.
Oltre alle sedi della Fiera, la Coppa sarà esposta anche nella sede istituzionale del Teatro Amintore Galli offrendo a tutta la città la possibilità di ammirare questo simbolo.
In una terra ricca di talenti in diverse discipline sportive come la nostra, questo traguardo, utilizzando il lessico tennistico, rappresenta un ace per mettere al centro, ancora una volta, il valore dello sport come volano di crescita e di sviluppo della comunità”.