Un po’ di spending rewiew, qualche sacrificio, qualche sforzo in più chiesto agli altri soci. Così il presidente Leonardo Cagnoli, oggi nella quarta commissione consigliare, ha spiegato come UniRimini, la società che sostiene lo sviluppo del campus universitario di Rimini, intende far fronte al drastico ridimensionamento dello storico contributo offerto dalla Fondazione Carim e alla ventilata uscita del Comune di Riccione dalla società. Cagnoli incontrerà il sindaco il 20 ottobre per sondare le intenzioni e tentare un recupero. “Finora – ha sottolineato – ho saputo dell’uscita di Riccione solo dai giornali. Vedremo”. In ogni caso ha fatto capire che non è un dramma se viene meno l’1,1 per cento detenuto dal Comune di Riccione, che in soldoni fanno un contributo di 13 mila euro all’anno. Diverso il passaggio della Fondazione Carim dal 42 al 10 per cento del capitale sociale, che comporta un ammanco di 300 mila euro all’anno. C’è anche da aggiungere che UniRimini è abituata a stringere la cintura: dal 2009 ad oggi i finanziamenti sono scesi del 45 per cento. Il consigliere Gennaro Mauro ha sollecitato una campagna per il reperimento di nuovi soci, specie fra le categorie economiche del turismo, forse dimenticando che proprio l’Associazione albergatori, che ne faceva parte, nel 2015 è uscita dalla società.

La riunione della commissione è comunque stata molto utile per disegnare un quadro della situazione.

Cinquemila studenti, anche dalla Cina

Dal 1992 ad oggi, quando è nata UniRimini (si chiamava Uniturim) a Rimini c’era solo la scuola di studi turistici e 77 studenti. Oggi gli studenti sono circa 5.000, con 1.605 nuove matricole. Il 50 per cento degli iscritti arriva dalla Romagna e dalla provincia di Pesaro, mentre l’altra metà è costituita da fuori sede. Se in precedenza gli italiani provenivano dalla dorsale adriatica, adesso arrivano anche dal nord. Importante il flusso internazionale: 550 studenti, pari all’11 per cento, arrivano dall’estero. Di questi 450 sono di paesi extra Unione Europea, e ben 110 arrivano dalla Repubblica popolare cinese. Seguono nell’ordine Albania, Romania e Ucraina. Comunque sono presenti studenti da 70 paesi, dall’Albania allo Zimbawe, andando in ordine alfabetico. L’incremento di studenti dall’estero è stato ottenuto anche grazie a campagne di web marketing condotte sui motori di ricerca.

19 corsi di laurea, 6 in lingua inglese

L’internazionalizzazione non è solo nella provenienza degli studenti. Su 19 corsi di laurea (10 triennali, 8 magistrali) attivati nel Campus di Rimini, ce sono 6 condotti in lingua inglese: amministrazione e gestione di imprese, economia del turismo, Resource economics and sustainable development, Tourism economics and management, Wellness culture: sport, health and tourism, Fashion culture and management. Dall’anno accademico 2018/2019 ne sarà attivato un terzo in Advanced Cosmetic.

Dopo l’attuazione della riforma Gelmini, che ha abolito le facoltà, a Rimini ha sede il Dipartimento di scienze per la qualità della vita, al quale si aggiungo quattro Unità organizzative di sede: chimica industriale, scienze aziendali, scienze economiche, scienze statistiche. Le Scuole presenti nel campo sono quelle di Economia, Farmacia e Scienze Motorie, Lettere e beni culturali, Medicina e Chirurgia, Psicologia e scienze della formazione, Scienze. Fiore all’occhiello è il CAST, il centro di studi avanzati sul turismo, considerato come il principale volano dell’internazionalizzazione del Campus.

Distinguersi per crescere e sopravvivere

Come ha ricordato il presidente di Campus Sergio Brasini, la pista di lavoro seguita in questi anni è quella di passare da una logica di decentramento e decongestionamento della sede centrale di Bologna allo sviluppo di insegnamenti e corsi di laurea che siano unici, distintivi, legati alla cultura e all’economia del territorio, che non siano doppioni di corsi reperibili anche altrove. Da qui il privilegio a temi come il turismo, il benessere, gli stili di vita, la moda, i servizi alle persone e alle aziende. È anche la strada che permette di rafforzare l’insediamento riminese e di costruire un corpo docente radicato. Attualmente i docenti sono complessivamente 500, dei quali 148 legati esclusivamente a Rimini.

Le aule che mancano e il destino di Palazzo Lettimi

In commissione è stato fatto anche il punto sulla cittadella universitaria che ha la principale caratteristica di essere diffusa e non concentrata. Le varie sede sono comunque nell’ambito del centro stoico, con l’eccezione dei corsi infermieristici nella sede della Sgr. La cittadella ha una superficie coperta di complessivi 21, 434 metri quadri, 32 aule, 30 laboratori, 12 laboratori didattici, 1 biblioteca centrale da 100 posti, 1 studentato con 90 posti, 2 sale studio da 170 posti, 230 uffici. Le aule sono al momento insufficienti, soprattutto mancano quelle da 150/200 posti. La lacuna dovrebbe essere colmata ad inizio 2018 con l’inaugurazione del complesso dell’ex Istituto Leon battista Alberti. L’assessore Eugenia Rossi Di Scchio ha ricordato che ci sono 10 milioni di finanziamento dell’Università per realizzare la sede del Dipartimento di scienze per la qualità della vita. La location deve però essere ancor individuata.

Si è parlato anche del destino di Palazzo Lettimi, per il quale si è in attesa di sapere se il Comune riuscirà a ottenere i finanziamenti ministeriali per la ristrutturazione. Notizie si avranno probabilmente la primavera prossima. I consiglieri di minoranza hanno ribadito la contrarietà all’uso come dormitorio ma l’assessore ha assicurato che non sarà così.

Questa mattina il vescovo di Rimini monsignor Francesco Lambiasi, in occasione delle festa di San Gaudenzo, ha incontrato in Sala Ottagonale le autorità cittadine. Il discorso è stato tutto centrato sull'attualità della testimonianza di don Oreste Benzi, del quale il 2 novembre prossimo ricorrono i dieci anni dalla scomparsa. Ecco il testo integrale:

 

Dieci anni fa, e precisamente il 2 novembre 2007, moriva don Oreste Benzi. Non sono qui per una nostalgica commemorazione biografica né per una retorica rievocazione storica. Vorrei piuttosto aiutare me e voi a metterci di nuovo in ascolto del messaggio della sua figura e della sua opera, che in questi anni non solo non ha perso un grammo di “peso” della sua attualità, ma ha acquistato via via sempre più freschezza e fecondità profetica. Debbo però premettere due brevi considerazioni. La prima: il Don è stato non tanto un “santo prete”, ma un prete santo. Figlio di questa Chiesa, l’ha amata come si ama una madre, una sposa, una intera grande famiglia. E proprio come un padre di famiglia, ci ha guidato, spronato e anche tenacemente provocato. Come Chiesa diocesana, non per umiltà pelosa, ma con onestà pulita, dobbiamo riconoscere che abbiamo ancora tanto cammino da fare per attuare la sua “profezia”. Basti un richiamo tra i tanti: “Una Chiesa che non si schiera, si schiera con i più forti”. La seconda premessa: Oreste Benzi è stato un cittadino italiano, un riminese verace, ma anche un autentico cittadino del mondo. Si è appassionato alla sorte dei poveri, per i quali ha gridato e pagato di persona. Pertanto è soprattutto il suo “magistero” sociale e politico che ora vorrei provare a raccogliere e rilanciare, ricordando però che il Don ha coerentemente vissuto una profonda unità di vita. In lui il cittadino e il prete non si sono mai né contrastati né sovrapposti, secondo il motto di un suo maestro: “distinguere per unire” (Jacques Maritain). Lo ricordiamo quando partecipava alle manifestazioni di piazza – sempre con lo stile della non-violenza – con il rosario in una mano e nell’altra il cellulare. O quando andava nelle discoteche con l’immancabile tonaca lisa.

 

  1. Il suo sogno: la società del gratuito

Per scrupolo di fedeltà, ritengo opportuno dare la parola direttamente a lui.

“Per società del gratuito intendo dire che il lavoro è lo strumento attraverso il quale l'uomo si mette in comunione con Dio e con il prossimo. Il lavoro allora non è lo scopo, ma lo spazio vitale che permette di manifestare l'amore verso coloro che beneficiano della mia attività. Il motivo del lavoro è allora il bene della comunità umana, la compartecipazione alla costruzione di un'umanità nuova dove regna la giustizia di Dio. Il motivo, detto in altre parole, è la gratuità totale perché con il lavoro partecipo all'attività creatrice di Dio e alla redenzione di Cristo. Non è quindi possibile avere come scopo ultimo la retribuzione. Non posso prostituirmi al denaro se Dio mi ha associato a Lui nella creazione e nella redenzione. Nella scuola, ad esempio, l'insegnante darà se stesso nella misura richiesta dal bisogno degli alunni. Inventerà il metodo per far promuovere tutti; non però per lo stupido «6 politico››, ma perché tutti sono realmente cresciuti. Se uno studente ha difficoltà, le lezioni per lui continueranno anche nel pomeriggio e allo Stato si chiederà il giusto necessario per vivere. In quest'ottica, come ho già detto, l'imprenditore investirà per creare nuovi posti di lavoro e per sé tratterrà la paga dell'ultimo dei suoi operai. Posto il principio che non è più il denaro la ragione della vita, tutta l'esistenza viene rinnovata secondo il criterio della gratuità totale. Gli stessi sindacati, pur avendo dato un importante contributo alla promozione dell’uomo, non sono ancora usciti da una logica egoistica di protezione delle categorie forti e delle caste. In sostanza al centro della società del gratuito c'è l'uomo, perché al centro c'è Gesù e l'uomo, per il quale Gesù è morto.

In sintesi la società del gratuito si contrappone frontalmente a quella del profitto: nella prima, al centro, è l’uomo inteso come un membro vivo di un corpo vivo, per cui se qualcuno sta male, tutto il corpo sta male, e per primo si pensa a guarire chi sta male. La caratteristica essenziale della società del gratuito è l’alterocentrismo, e la gratuità è il tratto fondamentale di questo tipo di società. La molla che spinge ad agire ogni membro è il bene comune, inteso come il bene degli altri e anche come il bene personale. Nella società del profitto vince sempre il più forte, mentre il più debole viene ingiustamente e inesorabilmente sacrificato all’interesse dei ricchi e dei potenti. E’ di peso e perciò viene emarginato ed escluso, come un membro inutile o addittura nocivo.

  1. Il suo sentiero: l’educazione alla pace

L’impegno per la pace è stato una costante nella vita di don Benzi. Ecco cosa scriveva nel 2001 al Presidente del Consiglio del tempo, in cui chiedeva l’istituzione del ministero della pace:

“La società attuale è violenta. In essa la guerra è strutturale. Gli individui, i gruppi, le grandi concentrazioni economiche, cercano i proprio interesse senza tenere conto degli altri. Non viene cercato il bene di tutti, ma lo schiacciamento degli altri. L’antico adagio latino, mors tua vita mea, è l’aspirazione dei gruppi di potere tra loro. Ogni concorrente è un potenziale nemico. In questa logica la società è fabbrica di poveri che vengono coltivati per essere ammortizzatori sociali nelle ricorrenti crisi economiche. Il volontariato si limita a “fare qualcosa” per le vittime di questa guerra continua, contribuendo paradossalmente a fare nuove vittime. Non basta dare un pezzo di pane all’affamato, ma è necessario individuare gli affamatori e agire perché smettano di affamare. Non è sufficiente mettere la spalla sotto la croce di chi soffre, bisogna far smettere di fabbricare croci. E’ ipocrita parlare di oppressi, di emarginati, di handicappati, di poveri, senza smascherare chi opprime, chi emargina, chi fabbrica poveri”.

Nella campagna “Pace da tutti i balconi”, in occasione dello scoppio della guerra in Iraq, il suo forte appoggio si mescolava a una grossa preoccupazione perché, diceva, “è facile esporre una bandiera… più difficile scegliere quotidianamente la pace. La pace come scelta concreta, lo sporcarsi le mani con i poveri, lottare per la giustizia, rinunciare ai privilegi”. Negli anni '70 e '80 in cui la scelta dell'obiezione al servizio militare era una concessione del Ministero della Difesa, don Oreste lottò duramente perché divenisse un diritto, e perché il servizio civile non fosse gestito in maniera punitiva. A lui stava a cuore che il servizio civile esprimesse sempre più concretamente una scelta forte di solidarietà, di cittadinanza attiva e di pace, volta alla difesa del Paese e dei suoi figli più deboli. Protestò e lottò di fronte ad una politica italiana che da un lato vendeva armi ovunque e dall'altra partecipava alle missioni militari internazionali “umanitarie” nei conflitti in cui venivano usate armi italiane (e non solo). Inoltre con la lucidità e la profezia che lo caratterizzava, il Don unì l’obiezione alle spese militari (OSM) a quella alle spese per l'aborto: quindi una doppia obiezione, a favore della vita.

Passo ora a presentare alcune situazioni alle quali Don Benzi ha posto sempre una grande attenzione e per le quali si è speso senza se e senza ma.

  1. I nomadi: più che poveri, sono emarginati

“Io, maledetto fra i maledetti”: così si racconta don Oreste ripensando al suo rapporto con i nomadi, incominciato nel 1988, quando si crearono forti tensioni tra i numerosi accampamenti di nomadi lungo il fiume Marecchia a Santa Giustina e la popolazione locale. Il Don offrì la sua mediazione, ma venne rifiutato. Non si arrese e cominciò a frequentare questi fratelli. La cosa gli fece perdere popolarità e credibilità, e ricevette anche minacce pesanti. Ma la “immersione a corpo” in quella drammatica realtà lo aiutò a capire la loro cultura, le loro tradizioni e usanze, i loro valori ed esigenze. Anche i loro problemi, certo, e i loro errori. Questa frequentazione lo portò a concludere: “I nomadi non vanno classificati tra i poveri, ma tra i fuori casta, tra gli esclusi, i malvisti, gli oppressi. L’unica strada per capirli è la condivisione. Allora ho detto: La vostra civiltà mi piace tanto. Io lascio la mia e vengo ad abitare in mezzo a voi”. Nel rileggere qualche giorno fa queste righe, mi veniva da pensare: ma il campo di via Islanda è ancora là. Io sono andato a visitarlo: è uno scandalo insopportabile che degli esseri umani debbano vivere da bestie selvagge. Cosa possiamo fare perché questo dramma si possa risolvere? Anziché continuare a litigare, non potremmo cominciare dal conoscerci più da vicino? Non riusciremmo così ad avere qualche muro in meno, a costruire qualche ponte in più per cominciare finalmente a dialogare? Diciamo insieme: No alla guerra tra poveri! Siamo fratelli, o no?

  1. Prostitute? No, chiamatele “prostituìte”

Cito dal quotidiano Avvenire del 20 settembre scorso:

“In Italia ci sono arrivata a 16 anni, venduta dai miei familiari”. Difficile dimenticare lo sguardo ferito di Nadia, romena, incontrata in una residenza protetta dopo la sua liberazione. «Venduta». Lo diceva con apparente noncuranza, ma quante lacrime poi nel raccontare il suo passato di merce umana: “Mi avevano promesso un lavoro vero, ma la prima sera in Italia mi hanno messo una minigonna e portata su una strada buia. Il primo uomo della mia vita è stato un anziano, padre di due figlie”. Chi ancora pensa che una donna possa liberamente scegliere di vivere così, dovrebbe incontrarle una per una, queste ragazze, ascoltare nei più atroci dettagli tutto ciò che avviene e semplicemente pensare: se fossi io? Proviamo a essere Nadia: “Tutte le notti il tormento durava fino all’alba, a casa non potevo tornare con meno di mille euro, pena un massacro”, e allora la conta dei clienti è presto fatta, “un quarto d’ora per 35 euro”, uno dopo l’altro venti, trenta uomini. “Dopo tre anni così supplicavo Dio di ammazzarmi». Invece le mandò don Benzi, che la portò via e la restituì alla vita. “Nessuna donna nasce prostituta - ripeteva Don Oreste che ne ha liberate settemila – “c’è sempre qualcuno che la fa diventare tale”.

Da qualche tempo anche a Rimini si va registrando una inversione di tendenza che mostra di voler affrontare la piaga vergognosa della prostituzione per il verso giusto, secondo il cosiddetto “modello nordico”. Finalmente anche da noi, grazie alla collaborazione dell’Amministrazione comunale, della Magistratura e delle Forze dell’ordine, e con il contributo importante delle associazioni per la tutela delle vittime di tratta, si è cominciato a sanzionare il cliente, di fatto protagonista nella catena di sfruttamento, e non le donne che, se arrivano sulla strada, sono già state oggetto di compravendita, di soprusi e umiliazioni. Non sono prostitute, ma sono state prostituìte. Sono state martoriate, prede della malavita, violentate, sottoposte ad aborti forzati, fatte oggetto di tratta. Difendere la dignità e la libertà di queste donne, schiavizzate e ridotte a merce di consumo, non è moralismo: lo stupro che subiscono non è un “atto contro il pubblico pudore”. E’ un orrendo crimine. Occorre pertanto creare una nuova cultura del rispetto, e di questo abbiamo disperatamente bisogno in Italia, dove lo stillicidio ripugnante del femminicidio deriva proprio dall’idea disumana che della donna si può fare ciò che si vuole, perché sarebbe un oggetto commerciale. Il decreto Minniti, convertito in legge lo scorso aprile, consente ai sindaci di emettere una ordinanza contro coloro che ottengono prestazioni sessuali a pagamento. Ci auguriamo che, come già avvenuto a Firenze, quanto prima venga emessa ed entri in vigore una ordinanza con il chiaro intento dell’Amministrazione di contrastare lo sfruttamento della prostituzione e la riduzione in stato di schiavitù in tutta la Città, per evitare che un fenomeno tanto disumano e incivile si trasferisca in altre zone.

  1. Gli immigrati: strade per la buona accoglienza

Tratto per ultimo questo fenomeno, perché è esploso con particolare forza negli anni successivi al “santo viaggio” di don Oreste, ma ritengo che esso potrà essere adeguatamente affrontato in base ai valori e ai criteri della società del gratuito. La positiva esperienza, condotta in questi anni, del modello “accoglienza diffusa”, in strutture piccole o di medie dimensioni - anche se non facile e comunque bisognosa di opportuni adattamenti e di ulteriori sviluppi – sembra possa essere vista come la più adeguata e in grado di garantire non solo l’attuazione delle misure previste per la prima emergenza, ma soprattutto, un positivo percorso di integrazione sul territorio ospitante, evitando il serio rischio di situazioni di sovraffollamento, ghettizzazione, marginalizzazione. La “carta per la buona accoglienza delle persone migranti” – sottoscritta il 18 maggio 2016 dal Ministero dell’Interno, dall’A.N.C.I. e dall’Alleanza delle Cooperative Sociali - ci conferma nella bontà e nell’efficacia del modello suddetto, avvalorato peraltro dalle recenti e ripetute affermazioni del ministro Minniti, come l’ultima di appena 6 giorni fa: “I grandi centri di accoglienza, per quanto ci si possa sforzare di gestirli nel modo migliore, non possono essere la via maestra per l’integrazione”.

Prima di chiudere, vorrei accennare al progetto “corridoi umanitari”, nato e completamente autofinanziato nel dicembre 2015, grazie all’intesa raggiunta e ratificata dalla Comunità S. Egidio, dalla Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, dalla Tavola Valdese, dai Ministeri degli Esteri e dell’Interno, con una importante carta attuativa, sottoscritta da Caritas Italiana e Comunità S. Egidio, e con l’APGXXIII. Ha come principali obiettivi: evitare i viaggi con i barconi nel Mediterraneo, che hanno già provocato un numero altissimo di morti, tra cui molti bambini; impedire lo sfruttamento da parte dei trafficanti di uomini che fanno affari con chi fugge dalle guerre; concedere a persone in “condizioni di vulnerabilità” un ingresso legale sul territorio italiano con visto umanitario e la possibilità di presentare successivamente domanda d’asilo.

Concludo con una proposta e un cordialissimo invito. Avrei dovuto e sinceramente voluto trattare anche di altri fenomeni in corso e di vari problemi aperti. In particolare del “magistero” di don Oreste riguardo ai giovani e della sua vision e mission con i giovani. E se ci dessimo appuntamento per un’altra occasione come questa? L’invito è a partecipare domenica 19 novembre alla Messa e alla Mensa con i poveri, nella Giornata Mondiale dei poveri, indetta da papa Francesco.

Vi ringrazio per la cortese attenzione e vi saluto di cuore

+ Francesco Lambiasi

È evidente per chi segue i lavori del consiglio comunale: il consigliere Gennaro Mauro (eletto nella lista Uniti si vince, oggi aderente al Movimento nazionale per la sovranità di Alemanno e Storace) tende a smarcarsi dalle posizioni spesso estremiste dei suoi colleghi dell’opposizione di centrodestra. “In una recente assemblea a Miramare – osserva Mauro – il sindaco Gnassi per ben tre volte è intervenuto per sottolineare come io svolga un’opposizione responsabile. Mi sono chiesto dove sto sbagliando…”. E dove sbaglia? “No, non sbaglio. Non è ragionevole assumere nei confronti dell’amministrazione comunale una posizione contraria, severamente critica, per così dire “a prescindere”, solo perché loro sono di sinistra e noi di destra, all’opposizione. Gnassi è al secondo mandato, non potrà essere rieletto. È quindi necessario assumere nei suoi confronti un atteggiamento diverso, che metta in evidenza la nostra vocazione di classe dirigente di governo, e non solo di opposizione”.

Osserviamo che anche dopo le elezioni del 2016 il centrodestra non sembra essersi risollevato dalla crisi. “Il centrodestra – risponde Mauro – ha gli stessi problemi del centrosinistra: partiti in crisi, fuga di militanti e di iscritti, assenza di luoghi di discussione e di confronto”.

Invitiamo il consigliere a passare in rassegna le forze in campo. “Obiettivo Civico sta dimostrando che Camporesi non poteva essere un candidato sindaco. Lo vedo spento, senza iniziativa, l’unica cosa che fa sono le battaglie monotematiche contro la Fiera. Prima aveva il gruppo dei 5 Stelle che lavorava per lui, adesso è solo e senza grinta”. La Lega? “Sta facendo bene il suo mestiere di ricerca del consenso ripetendo ad ogni occasione gli slogan nazionali. Mi pare non ci sia nessun tentativo serio di studio dei problemi, di capacità progettuale. Si vede che è una forza giovane, non sedimentata sul territorio”. Forza Italia? “E’ ridotta ai minimi termini, non ci fosse stata la candidatura di Nicola Marcello, forse avrebbe preso un solo consigliere. Non riesce a svolgere il ruolo di sintesi che aveva nel passato. È un partito verticistico, sono lì tutti che aspettano cosa deciderà di fare Berlusconi”. E poi c’è Gioenzo Renzi, Fratelli d’Italia: “A Renzi piace fare le sue battaglie individuali. Il centrodestra sconta l’incapacità di lavorare in team”.

Il quadro che emerge dall’analisi realistica di Mauro è un centrodestra che procede in ordine sparso, senza fare squadra, senza un’idea unificante, senza un progetto. “Costruire un percorso di cambiamento non è facile. Dobbiamo sfidare Gnassi su un progetto alternativo, senza necessariamente mandare a mare tutto quello che fa. Bisogna riconoscere che lui la città, a modo suo, la sta cambiando. Non accetta di essere definito un rottamatore, ma ha tracciato una chiara linea di demarcazione rispetto al passato della sinistra in questa città. Sa proporre idee e suggestioni, è capace di trovare le risorse economiche. Ha un grande vizio che è quello di considerarsi un uomo solo al comando. Non solo sfugge spesso al confronto istituzionale, in consiglio comunale, ma anche con la società civile. E le questioni su cui metterlo alle corde sono tante: ad esempio la questione della mobilità legata al Parco del Mare. Lui va avanti con il progetto ma non affronta il tema cruciale della viabilità una volta che il lungomare sarà chiuso al traffico”.

Quello che si nota è che non c’è un’alternativa credibile alla vision di Gnassi. “E’ vero – riconosce Mauro – però il sindaco ha il vantaggio di avere a disposizione la macchina comunale che lavora per lui. Noi non possiamo contare su chi ci produce un rendering dopo l’altro”.

Bisognerà che prima o poi nel campo del centrodestra qualcuno prenda l’iniziativa. “Nel mio piccolo – risponde Mauro – con le forze limitate di cui dispongo, sto muovendomi. Non ho molta fiducia nei partiti, con i quali l’accordo è difficile anche su temi che dovrebbero essere scontati. Per me è fondamentale che si superi il corto circuito fra controllato e controllore, per cui ritengo che il Comune debba vendere le azioni di Hera. La Lega invece è contraria. Avevo proposto che in bilancio fossero trovate le risorse per un buono bebè, per andare incontro ai bisogni delle famiglie. Cosa fa la Lega? Interviene per dire che doveva essere solo per gli italiani, non per gli stranieri. Ma si può?! Quindi non parto dai partiti ma cerco di costruire un movimento civico, allacciando rapporti con imprenditori e una rete di associazioni. C’era stato il tentativo, non finito positivamente, di Sacchini; penso si possa riprovare evitando gli errori del passato”.

Se l’offerta politica di centrodestra non torna credibile, avrà lunga vita il Patto Civico di Pizzolante, che è stato determinante per la vittoria di Gnassi. “Sono convinto che molti nostri elettori lo avrebbero votato anche senza Patto Civico. Sono stati conquistati dal suo decisionismo, dalla sua rottura con il passato. Il vero guaio adesso è del Pd…”. E cioè? “Chi proporrà come successore di Gnassi? Nel partito è stata fatta terra bruciata. O convincono Arlotti a rinunciare di fare il parlamentare o al momento non vedo nessuno”.

Il punto è che anche nell’orizzonte del centrodestra non si vede nessuno. “Bisogna invogliare le persone alla politica. Non è facile. Si parla tanto della casta, ma a livello locale chiunque guadagna di più nella propria professione che a fare il sindaco o l’assessore. Si deve far politica per una passione e per il servizio alla città, ma anche la gratificazione economica è importante”.

Il 2 novembre prossimo ricorrono i dieci anni dalla scomparsa di don Oreste Benzi (1925-2007), il sacerdote riminese fondatore della Comunità Papa Giovanni XXIII. L’anniversario sarà ricordato con un raduno che si terrà il 31 ottobre al Palacongressi di Rimini. Non è che una, in Italia e nel mondo, delle iniziative che saranno organizzate per ricordare il prete dalla “tonaca lisa”.

In concomitanza con il decimo anniversario, l’editore San Paolo rimanda il libreria Con questa tonaca lisa, a venticinque anni dalla prima edizione. Il libro contiene una lunga intervista realizzata da Valerio Lessi, nella quale il sacerdote ripercorre le proprie origine e la propria formazione, racconta gli inizi della Comunità, spiega la specificità (seguire Cristo povero) del carisma ricevuto.

La nuova edizione del libro è preceduta da una Introduzione in cui Valerio Lessi racconta come nacque il libro e il forte impatto che ebbe, soprattutto per i giudizi allarmati di don Oreste sulla situazione della Chiesa contemporanea. Viene anche proposto un accostamento fra la testimonianza di don Oreste e i contenuti e lo stile del pontificato di Francesco.

Proponiamo l’ultima parte dell’Introduzione, in cui si parla della continuità del carisma dopo la morte del fondatore della Comunità.

L’ultimo tema dell’intervista fu la sopravvivenza del carisma alla morte del fondatore. Don Benzi spiegò che il carisma non si sarebbe esaurito finché uno solo dei membri della comunità avesse conservato la fede. «Sì – conferma Giovanni Paolo Ramonda - aveva ragione don Oreste. Come mostra la storia della chiesa: dopo la morte dei fondatori c’è sempre un’esplosione del carisma.

Da quando don Oreste ci ha lasciati c’è stata continuità nel mantenere aperte tutte le realtà di vita e di condivisione: case famiglia, comunità terapeutiche, cooperative sociali, case di preghiera e di fraternità. Nello stesso tempo ci sono state nuove aperture di case di accoglienza, di Capanne di Betlemme per i senza tetto, di iniziative volte a rispondere ai nuovi bisogni. Questi dieci anni di crisi hanno portato sulla strada molte persone senza lavoro, si è acutizzata l’emergenza profughi alla quale abbiamo cercato di fornire risposte.

In questi dieci anni abbiamo raddoppiato le aperture in terra di missione. In Europa abbiamo aperto in Germania, Olanda, Inghilterra, Portogallo e Spagna; in Africa abbiamo aperto in Camerun, Burundi, Sierra Leone e, a Dio piacendo, a Capo Verde, in Asia abbiamo aperto in Sri Lanka, Thailandia, con una casa famiglia per disabili. C’è stata un’esplosione del carisma, che continua ad attirare molti giovani e molte coppie di sposi».

L’Associazione Papa Giovanni XXIII è oggi presente in 40 paesi, toccando tutti i continenti. Non è solo una realtà italiana, tanto meno riminese.

«Lo spirito di don Oreste – prosegue Ramonda - è vivo e permane nella comunità perché continua la relazione fondamentale centrale con Cristo, perno della nostra vita, nostra forza anche in mezzo alle difficoltà e alla tribolazioni. Penso al Bangladesh dove i nostri fratelli per devono essere scortati quando escono dalla missione, perché è forte il fondamentalismo islamico che ha colpito anche con atti terroristici a Dacca. Siamo presenti in paesi dove i cristiani sono una minoranza perseguitata. Tuttavia lo spirito rimane forte, anche nel rispondere alla chiamata: il 95 per cento dei membri della comunità sono sposati e sono una cinquantina i consacrati. Alcuni di noi sono stati ordinati sacerdoti. C’è desiderio di molti di venire a vivere questo carisma nel suo cuore e di andarlo a vivere nella condivisione diretta con i poveri, che è lo specifico della nostra vocazione che si rende visibile».

A dieci anni dalla morte, cosa è ancora attuale dell’insegnamento di don Oreste Benzi? Giovanni Paolo Ramonda non ha dubbi: «La centralità di Cristo. Anche papa Francesco ha detto che il missionario è l’uomo fondato su Cristo. Don Oreste non legava a sé ma portava a Cristo. Questo insegnamento è ancora attualissimo. Il suo messaggio rimane ancora prezioso per i giovani. Ogni anno quasi mille giovani vengono a vivere un’esperienza con noi: alcuni non vengono dalle comunità ecclesiali, ma solo perché hanno sete di giustizia e, incontrando una vita di condivisione con i poveri, si riaccendono e si rimotivano, cercando di rendersi utili per il bene comune. Rimane attuale l’insegnamento che i poveri sono i nostri maestri, che al cento di una casa famiglia ci sono le persone accolte, che al centro di una comunità terapeutica ci sono i ragazzi che vogliono liberarsi dalle droghe, che noi siamo i collaboratori della gioia di queste persone».

Alla data del 20 ottobre 1991, prima di andare in stampa con la prima edizione di Con questa tonaca lisa, don Oreste Benzi faceva il punto sulla comunità da lui fondata: i membri erano 486 e 122 le persone che stavano vivendo l’anno di verifica vocazionale; 784 le persone che ogni giorno, a pranzo e a cena, si sedevano a tavola nelle strutture della comunità. Più di venticinque anni dopo, maggio 2017, la comunità gestisce 450 strutture di accoglienza in tutto il mondo con 5000 persone inserite. A tavola si siedono ogni giorno 41 mila persone. I membri della comunità sono 1.800 e 300 stanno vivendo il periodo di verifica.

Il carisma della comunità non si è spento, la fiamma della fede è rimasta accesa. I membri della comunità fanno tesoro dell’ultimo monito don Benzi: «Ciò che di cui ho davvero paura è che dentro la comunità venga a meno la profezia, che diventi istituzione. Allora davvero lo Spirito sarebbe soffocato o spento. Abbiamo bisogno di profeti e di profezia». Ancora una volta emerge la sintonia con l’attuale magistero di papa Francesco che ai movimenti ecclesiali raccomanda sempre di conservare «la freschezza del carisma» e di fuggire la tentazione di «ingabbiare lo Spirito».

Secondo il recente sondaggio della Confcommercio sull’andamento della stagione turistica 2017, i commercianti di Rimini ritengono che gli eventi siano stati utili ad aumentare l’affluenza di turisti nelle loro attività (72%), mentre gli imprenditori di Riccione, Cattolica e Misano Adriatico considerano gli eventi “inutili” (60%) e in alcuni casi anche “dannosi” per la propria attività.

Una diversità di valutazione che sorprende e che è difficile da comprendere. “Così – afferma Gianni Indino, presidente della Confcommercio – ci hanno detto i commercianti. Per i nostri soci riminesi la politica degli eventi è un volano che incrementa le presenze turistiche, per gli altri sembra addirittura il contrario. A Rimini il consenso è maggioritario, se ci sono dei distinguo sono solo su alcuni aspetti come la location: si chiede che non siano organizzati sempre nello stesso posto, ma distribuiti anche in altre zone del territorio comunale. Probabilmente a Riccione non si ritiene che gli eventi siano un efficace mezzo per attrarre turisti”.

Eppure stando alle dichiarazioni dell’amministrazione (e alle prese di posizione nella recente campagna elettorale), tutti sembrano convenire che la politica degli eventi è positiva, semmai bisogna qualificarla.

“Ma noi – replica Indino – abbiamo sondato gli umori dei commercianti, non quello dell’amministrazione o dei partiti. I commercianti di Riccione e della zona Sud sono scontenti degli eventi”.

Ci sarà una ragione, lei che idea si è fatto?

“Bisognerebbe tornare da loro e porre la domanda in maniera esplicita. La ma impressione è che Riccione si considera un po’ fighetta, snob, glamour, e quindi ritiene che certi eventi non siano nelle sue corde, anzi che producano disagio. Mi pare che anche la linea dell’attuale amministrazione sia per il ritorno a una certa immagine di Riccione”.

Ma c’è qualcosa che dovrebbe essere cambiato nella politica degli eventi seguita dalle amministrazioni comunali della Riviera?

“Sono a Ibiza per un convegno internazionale. Una destinazione dove sono i locali a promuovere eventi che attraggono turisti da tutta Europa che pagano per parteciparvi. Gli imprenditori svolgono qui il mestiere che anche noi facevamo un tempo: organizzare eventi, promuovere il divertimento. Adesso da noi gli eventi sono promossi dai Comuni…”.

E non vi dispiace che i Comuni vi abbiano rubato il mestiere?

“Assolutamente no, perché noi in questo momento non saremmo in grado di sostenere questo impegno. Troppe tasse, troppe burocrazia, le nostre energie sono totalmente assorbite. I Comuni vadano avanti, promuovano oltre agli eventi di divertimento anche quelli culturali, che costituiscono oggi una forte attrazione per molti turisti”.

E voi state con le mani in mano?

“In realtà c’è un nuovo fermento. C’è chi sta investendo in alberghi, negozi, locali nuovi. Se il nostro territorio sarà rilanciato, forse torneremo prima o poi anche a svolgere il mestiere di organizzatori di eventi”.

Dalla Regione oltre 10 milioni e mezzo di contributi a fondo perduto saranno elargiti nel biennio 2017-2018 per la ristrutturazione e l’innovazione delle strutture alberghiere. Nella provincia di Rimini partecipano alla spartizione della torta, su 59 ammesse, 23 imprese ricettive, così distribuite dal punto di vista territoriale: 6 Rimini, 8 Riccione, 3 Bellaria Igea Marina, 3 Cattolica, 2 Misano Adriatico, 1 San Clemente.

I fondi sono quelli del Por Fesr 2014-2020: all’inizio comprendevano complessivamente 15 milioni di euro, da destinare, oltre che alle strutture ricettive, anche agli esercizi commerciali e pubblici esercizi, nonché alle imprese culturali (cinema, teatri, spazi per la musica). Poi, con la finestra aperta a settembre, sono stati aggiunti altri 5 milioni e mezzo.

Per le strutture ricettive a luglio sono stati destinati 7 milioni e mezzo alle prime 42 in graduatoria; a fine settembre, poiché sono stati reperiti altri fondi (oltre 3 milioni), altre 18 imprese sono state ammesse a ricevere il contributo.

Il bando della Regione, finalizzato a sostenere turismo, commercio e cultura nella sfida con l’innovazione, ha avuto una risposta che evidenzia come non sia venuta meno la voglia di investire nel turismo. Per la misura A, riguardante le strutture ricettive, sono state presentate 199 domande di contributo, delle quali solo 174 sono state giudicate ammissibili. Dalla Riviera di Rimini sono partite 63 richieste di contributo, 9 delle quali non ammesse. A ricevere i contributi, come abbiamo visto, saranno alla fine dei conti 23 imprese. Guardando all’universo delle strutture alberghiere, sono poca cosa; rispetto all’inderogabile esigenza di innovazione che hanno la stragrande maggioranza degli hotel della Riviera, si tratta solo di un piccolo passo. Se si vuole guardare al fenomeno in positivo si può dire che quelle 63 richieste di contributo rappresentano comunque un segnale importante.

Per completare il quadro, va ricordato che il bando della Regione era molto selettivo, pretendeva ristrutturazione radicali (non semplici abbellimenti) e l’introduzione di servizi innovativi per la clientela. Si nota come Riccione abbia ottenuto maggiori contributi di Rimini, anche perché dalla Perla Verde erano stati presentati più progetti, sia intermini assoluti che in rapporto al complessivo numero delle imprese.

Il contributo che ogni impresa ricettiva riceverà è in prevalenza di circa 200 mila euro.

Nella misura B, quella per gli esercizi commerciali e i pubblici esercizi, su 60 imprese ammesse al contributo (anche in questo caso a settembre c’è stato un scorrimento della graduatoria che ha recuperato progetti inizialmente scartati, raggiungendo così la somma di 6 milioni e mezzo) si contano sulle dita delle mani quelle della provincia di Rimini: la boutique Gaudenzi di Riccione, la pizzeria La Grotta di Pietracuta, il ristorante Nud e Crud a Rimini, il bagno di Giorgio Mussoni a Viserbella, le Fonti San Francesco di Verucchio per la realizzazione di un parco acquatico, il ristorante Sirena di Riccione e il Basilico di Rimini.

Il territorio della provincia di Rimini è invece rimasto a bocca asciutta nella misura C, quella che prevedeva contributi per i contenitori culturali. L’unico progetto ammesso risulta quello della società Gotha srl relativo all’Altromondo.

Il discorso di papa Francesco a Cesena (qui la nostra sintesi) deve avere molto colpito il sindaco di Rimini Andrea Gnassi. Lo ha citato giovedì sera in consiglio comunale, è il filo rosso di una dichiarazione diffusa oggi in cui invita tutte le componenti della città a non stare sul balcone e a contribuire con generosità a dare il proprio contributo. Arrivando a scrivere che "A Roma o Milano come a Rimini, la politica deve ammettere gli errori, deve ammettere di non bastare, a se stessa e agli altri."

Ecco la nota diffusa oggi dal sindaco:

Giovedì ho partecipato a una bella iniziativa dell’Emporio Solidale, straordinaria esperienza riminese di altruismo quotidiano. Nei giorni precedenti sempre la nostra città è stata teatro di un evento di tutt’altro segno: la presentazione del progetto di collaborazione tra Comune di Rimini e San Patrignano per un nuovo spazio dedicato all’arte contemporanea, intesa la cultura come strumento di crescita individuale, sociale, economica, relazionale.

Non so per quale percorso mentale ma la sintesi tra due momenti di vita cittadina apparentemente così distanti la ritrovo in alcune recenti parole di Papa Francesco: non ci è concesso guardare la realtà dal balcone, né possiamo rimanere comodamente seduti sul divano a vedere il mondo che passa davanti a noi in Tv. Per poi, magari, ‘chiacchierare’ e non costruire.

Non basta, o non basta più, misurare la generosità di Rimini sul commovente tessuto volontaristico e associativo, l’eccezionale rete cittadina dei ‘sensibili’, centinaia di persone che ogni giorno investono parte del loro tempo per venire incontro agli altri. Adesso ci vuole uno scatto perché lo ‘stare sul balcone’, di fronte al bisogno e alla necessità, non è più condizione accettabile. L’Università, il welfare, la cultura, lo sport, la riqualificazione del tessuto urbano sono settori della vita di comunità che, di recente, sul nostro territorio hanno registrato un protagonismo sin troppo a singhiozzo, salvo eccezioni rimarchevoli, di una parte importante della componente privata. E non può essere solo problema di crisi economica visto che questa non risparmia alcun territorio in Italia. Dal passato, crisi o non crisi, ci viene restituita la stessa sensazione e cioè una difficoltà complessiva di restituzione al territorio in tutte le sue articolazioni (e in cui il Comune è un elemento e non l’elemento) della ricchezza, non solo come atto ‘di generosità’ ma come ‘investimento’ sul contesto in cui si vive e lavora. Consapevoli che un contesto migliore genera armonia, sostenibilità, equilibrio, pre condizioni indispensabili all’incremento del lavoro e del benessere sociale e economico. Senza Università, il territorio riminese sarebbe più ricco? Con l’azzeramento dell’associazionismo sportivo e culturale, le migliaia di persone- soprattutto ragazzi- che le frequentano quotidianamente- non rischierebbero di perdere sempre più la connessione con il tessuto relazionale e identitario? Posso continuare con gli esempi ma il discorso di fondo è che il trovare il senso di generosità verso la comunità. Quella generosità che non si ferma solo alla carità o all’assistenza ma diventa leva di crescita a disposizione dell’intera comunità.

Ha ragione il Papa: la politica non deve essere spocchiosa, deve ammettere i limiti; poter dire: ‘sì qui ho sbagliato’. A Roma o Milano come a Rimini, la politica deve ammettere gli errori, deve ammettere di non bastare, a se stessa e agli altri.

Come sindaco sento l’urgenza di cercare di fare, qualcosa di molto di più, di molto più significativo per gli altri. Chi può, (e ce ne sono nella nostra realtà!) faccia: professionisti, imprenditori e personalità, imprese.

Fare, contribuire, lasciare un segno.

Sia ben chiaro, sappiamo che fare impresa, come volontariato, è già un atto sociale e per di più è molto difficile. Ma scendere dal balcone, farsi carico, non delegare sempre e comunque, non limitarsi ad agire esclusivamente in una ‘confort zone’ a volte perfino compiaciuta, dividere con gli altri per arricchire insieme, è un’altra cosa, ed è altrettanto necessaria.

Ce lo siamo detti da Riminesi tante volte: accade più spesso fuori, quasi mai a Rimini che qualcuno lasci un grande segno, investa in un bene di comunità.

Rimini non è una città perfetta. Ma oggi ci sono condizioni nuove e opportunità per “rischiare”, nel voler restituire alla comunità, al territorio quella ricchezza che è prima di tutto un investimento, che può dare anche un ritorno al generoso.

Non possiamo più continuare con i soli eroi, e cioè l’Emporio solidale, le tante iniziative dell’associazionismo sportivo, culturale, sociale, lo slancio di qualche privato. Occorre di più. Stare sul balcone a guardare non è più permesso.

Grazie ad una mozione presentata dal consigliere Gioenzo Renzi (Fratelli d’Italia), il tema del Museo Fellini a Castel Sismondo e le iniziative dell’amministrazione per la valorizzazione del patrimonio storico-monumentale di Rimini sono state oggetto di un dibattito in consiglio che ha permesso di mettere a confronto le diverse idee in campo.

Renzi si è fatto interprete di quella posizione (espressa dal professor Giovanni Rimondini, identificato tout court come “il mondo della cultura”) che vede nel Museo Fellini nel castello di Sigismondo Malatesta come uno sfregio alla memoria del signore rinascimentale di Rimini e come un torto allo stesso regista riminese. Secondo Renzi, la giunta e il sindaco Gnassi hanno sbagliato ad archiviare il recupero del fossato che sarebbe diventato “un’opera di attrazione mondiale”. Pollice verso anche per i giardinetti con i muretti che sono in allestimento in piazza Malatesta, orrore per il paventato CircAmarcord (l’arena delle arti) che si vorrebbe realizzare fra il castello e il teatro Galli, sdegno per la profanazione delle sale rinascimentali destinate ad ospitare la ricostruzione di set cinematografici.

Subito dopo Renzi, il sindaco Andrea Gnassi si è incaricato di ricondurre la questione alla “visione complessiva” in cui rientra questo intervento come gli altri in cantiere (Fulgor, Galli, Ponte di Tiberio). E la visione è quella della cultura e dell’arte come motore di sviluppo della città. Gnassi ha riconosciuto che nei settant’anni precedenti c’è stata amnesia storica, pigrizia e negligenza nel non valorizzare il patrimonio ereditato dal passato. Per lui la causa va rinvenuta nello choc dei bombardamenti della guerra, per Renzi e altri consigliere di minoranza (Mauro, Spina) i responsabili hanno un nome e cognome che corrisponde a quello degli amministratori comunisti che hanno guidato la città dal dopoguerra in poi.

Il sindaco ha invitato a ricordare come il castello è arrivato fino a noi: solo le mura, spogliato di mobili e opere d’arte d’epoca, anche perché dal XIX secolo in poi è stato prima caserma e poi carcere. È quindi un contenitore che può degnamente ospitare un museo dedicato ad uno dei maggiori geni mondiale nell’arte del cinema (“Non è che i geni del Novecento valgono di meno di quelli del Quattrocento”). E non va dimenticato che questa idea progettuale è servita ad intercettare ingenti risorse messe a disposizione dal Ministero dei beni culturali. All’interno, con le nuove tecnologie digitali sarà possibile realizzare un tipo di museo che rispetta gli spazi e realizza contesti emozionali.

La piazza è stata liberata dal mercato ambulante e dal parcheggio per farne una arena delle arti, con un progetto approvato dalla Soprintendenza. È stato deciso di non recuperare il fossato perché nella campagna di scavi preliminare è emerso che avremmo ritrovato solo terreni e detriti di riporto. Non è comunque escluso che si possa fare una campagna di scavi in profondità sul lato del campone e quindi di far emergere parte del fossato. Gnassi non si è risparmiato una battuta sulla mania di recupero filologico: “Non è che al Museo ci abbiamo rifatto il Collegio dei Gesuiti, che all’ex macello è sorta una nuova macelleria”.

Il dibattito successivo non ha aggiunto granché, a conferma che la visione di Gnassi (criticabile finché si vuole) non ha trovato fino ad oggi un’alternativa altrettanto suggestiva o praticabile. Renzi ha insistito nel sostenere che Sigismondo non può essere sfrattato dal suo castello, che l’opera a cui ha lavorato il Brunelleschi può essere promossa nel mondo senza la profanazione felliniana. Ha attaccato a testa bassa sostenendo che c’è un filo rosso che lega l’abbattimento del Kursaal, il no agli scavi all’anfiteatro e i buchi alle mura malatestiane.

Gennaro Mauro si è smarcato dall’estremismo renziano per sostenere che non ci deve essere contraddizione fra la valorizzazione di Sigismondo e quella di Fellini. Ha però rimarcato che avrebbe preferito un concorso di idee per la piazza invece dell’incarico diretto. Ha lamentato che il Comune non si è troppo impegnato per il centenario di Sigismondo.

Luigi Camporesi, di Obiettivo Civico, non è entrato nelle questioni culturali (“Non sono competente”) e ha invece battuto il tasto della sostenibilità economica. Ci sono aziende che hanno compiuto investimenti innovativi e poi sono fallite perché non avevano al loro interno le competenze necessarie a gestire quelle innovazioni. A Rimini è già successo per il Palacongressi, c’è il rischio che si ripeta, perché dal sindaco non è arrivato nulla circa i numeri e i flussi economici che si intendono attivare.

Carlo Rufo Spina, pur esprimendo qualche apprezzamento sull’intervento del sindaco, ha sottolineato alcune criticità e si è associato al no secco sul Museo Fellini nel castello. Della maggioranza si è udita solo la voce di Davide Frisoni (Patto Civico) secondo il quale a Rimini tutti (non solo i comunisti) si erano dimenticati della cultura e ha sostenuto che gli interventi di questa giunta porteranno ad un virtuoso rapporto fra turismo e cultura.

La mozione di Renzi è stata respinta dalla maggioranza.

Grazie ad una mozione presentata dal consigliere Gioenzo Renzi (Fratelli d’Italia), il tema del Museo Fellini a Castel Sismondo e le iniziative dell’amministrazione per la valorizzazione del patrimonio storico-monumentale di Rimini sono state oggetto di un dibattito in consiglio che ha permesso di mettere a confronto le diverse idee in campo.

Renzi si è fatto interprete di quella posizione (espressa dal professor Giovanni Rimondini, identificato tout court come “il mondo della cultura”) che vede nel Museo Fellini nel castello di Sigismondo Malatesta come uno sfregio alla memoria del signore rinascimentale di Rimini e come un torto allo stesso regista riminese. Secondo Renzi, la giunta e il sindaco Gnassi hanno sbagliato ad archiviare il recupero del fossato che sarebbe diventato “un’opera di attrazione mondiale”. Pollice verso anche per i giardinetti con i muretti che sono in allestimento in piazza Malatesta, orrore per il paventato CircAmarcord (l’arena delle arti) che si vorrebbe realizzare fra il castello e il teatro Galli, sdegno per la profanazione delle sale rinascimentali destinate ad ospitare la ricostruzione di set cinematografici.

Subito dopo Renzi, il sindaco Andrea Gnassi si è incaricato di ricondurre la questione alla “visione complessiva” in cui rientra questo intervento come gli altri in cantiere (Fulgor, Galli, Ponte di Tiberio). E la visione è quella della cultura e dell’arte come motore di sviluppo della città. Gnassi ha riconosciuto che nei settant’anni precedenti c’è stata amnesia storica, pigrizia e negligenza nel non valorizzare il patrimonio ereditato dal passato. Per lui la causa va rinvenuta nello choc dei bombardamenti della guerra, per Renzi e altri consigliere di minoranza (Mauro, Spina) i responsabili hanno un nome e cognome che corrisponde a quello degli amministratori comunisti che hanno guidato la città dal dopoguerra in poi.

Il sindaco ha invitato a ricordare come il castello è arrivato fino a noi: solo le mura, spogliato di mobili e opere d’arte d’epoca, anche perché dal XIX secolo in poi è stato prima caserma e poi carcere. È quindi un contenitore che può degnamente ospitare un museo dedicato ad uno dei maggiori geni mondiale nell’arte del cinema (“Non è che i geni del Novecento valgono di meno di quelli del Quattrocento”). E non va dimenticato che questa idea progettuale è servita ad intercettare ingenti risorse messe a disposizione dal Ministero dei beni culturali. All’interno, con le nuove tecnologie digitali sarà possibile realizzare un tipo di museo che rispetta gli spazi e realizza contesti emozionali.

La piazza è stata liberata dal mercato ambulante e dal parcheggio per farne una arena delle arti, con un progetto approvato dalla Soprintendenza. È stato deciso di non recuperare il fossato perché nella campagna di scavi preliminare è emerso che avremmo ritrovato solo terreni e detriti di riporto. Non è comunque escluso che si possa fare una campagna di scavi in profondità sul lato del campone e quindi di far emergere parte del fossato. Gnassi non si è risparmiato una battuta sulla mania di recupero filologico: “Non è che al Museo ci abbiamo rifatto il Collegio dei Gesuiti, che all’ex macello è sorta una nuova macelleria”.

Il dibattito successivo non ha aggiunto granché, a conferma che la visione di Gnassi (criticabile finché si vuole) non ha trovato fino ad oggi un’alternativa altrettanto suggestiva o praticabile. Renzi ha insistito nel sostenere che Sigismondo non può essere sfrattato dal suo castello, che l’opera a cui ha lavorato il Brunelleschi può essere promossa nel mondo senza la profanazione felliniana. Ha attaccato a testa bassa sostenendo che c’è un filo rosso che lega l’abbattimento del Kursaal, il no agli scavi all’anfiteatro e i buchi alle mura malatestiane.

Gennaro Mauro si è smarcato dall’estremismo renziano per sostenere che non ci deve essere contraddizione fra la valorizzazione di Sigismondo e quella di Fellini. Ha però rimarcato che avrebbe preferito un concorso di idee per la piazza invece dell’incarico diretto. Ha lamentato che il Comune non si è troppo impegnato per il centenario di Sigismondo.

Luigi Camporesi, di Obiettivo Civico, non è entrato nelle questioni culturali (“Non sono competente”) e ha invece battuto il tasto della sostenibilità economica. Ci sono aziende che hanno compiuto investimenti innovativi e poi sono fallite perché non avevano al loro interno le competenze necessarie a gestire quelle innovazioni. A Rimini è già successo per il Palacongressi, c’è il rischio che si ripeta, perché dal sindaco non è arrivato nulla circa i numeri e i flussi economici che si intendono attivare.

Carlo Rufo Spina, pur esprimendo qualche apprezzamento sull’intervento del sindaco, ha sottolineato alcune criticità e si è associato al no secco sul Museo Fellini nel castello. Della maggioranza si è udita solo la voce di Davide Frisoni (Patto Civico) secondo il quale a Rimini tutti (non solo i comunisti) si erano dimenticati della cultura e ha sostenuto che gli interventi di questa giunta porteranno ad un virtuoso rapporto fra turismo e cultura.

Quand'ero ragazzetto e, ogni sera, Maurizio Costanzo officiava, con sacralità, il suo show - sorta di rito pagano della chiesa catodica cui nessuno sembrava volere rinunciare - sul palco del 'Parioli', teneva banco - pure abbastanza spesso - un simpatico personaggio. Pierino Brunelli, da Montecucco. Teorizzava la 'Magna Romagna', ruspante cuore di un nuovo ordine planetario da lui guidato con la carica - e quale sennò - di Imperatore del Mondo.
In 'sti giorni, in cui in Spagna si sta consumando sempre più duramente lo 'scontro' tra il Governo centrale di Mariano Rajoy e la Generalitat de Catalunya di Carles Puigdemont, lanciata verso una dichiarazione unilaterale di indipendenza - frattura che rischia di diventare insanabile nel Paese e di riverberarsi sull'intera Europa - la 'Magna Romagna' è risbucata fuori dal cassetto delle buffe memorie.
Mentre Lombardia e Veneto hanno già in calendario un referendum per ampliare la propria autonomia e l'Emilia-Romagna ha dato il via libera proprio nelle scorse ore, con il voto in Assemblea regionale, ad un percorso per strappare, anch’essa, maggiore autonomia, la Lega Nord ha lanciato la proposta di una Romagna separata dall'Emilia. Immaginando di porre fine a un 'matrimonio' ultraquarantennale, celebrato ufficialmente il 7 giugno del 1970. Un 'addio' vagheggiato, da tempo, dal Mar-Movimento per l'Autonomia della Romagna e che ora il Carroccio fa proprio, sull'onda del vento separatista che soffia un po' ovunque.
Non so se sia una cosa fattibile. Né se sia saggia o non lo sia affatto. Tantomeno, se abbia buone basi dal punto di vista economico – forse quello da tenere in maggiore considerazione - e da quello storico e sociale. Se permetta, in prospettiva, un 'Rinascimento' romagnolo o, invece, se vada a interrompere irrimediabilmente un ciclo - a guardare gli indicatori - virtuoso.
Non lo so proprio. E chissà cosa potrebbe succedere. D'altronde, quando si scambiano quattro chiacchiere, quando si conciona del più e del meno, con amici o sconosciuti, c'è sempre qualcuno che – prima o poi - la butta là: 'ah, se la Romagna, si tenesse i suoi soldi, solo con il Turismo, sai quanti ne diamo all'Emilia?...' . E qualcun altro che sostituisce al bossiano d'un tempo 'Roma ladrona', un più pacato 'Bologna padrona' come se la città capoluogo di regione fosse una cattiva matrigna che vuole tutto per sè.
A sentire i sostenitori dell'indipendentismo romagnolo - sul Web o al bar - tutto sommato, ci mancherebbe forse qualcosa, senza i 'cugini'? Turismo balneare, dicono, ne abbiamo. Borghi, colline e foreste, aggiungono, pure. Città d'arte, anche. Il comparto ortofrutticolo c'è, quello delle calzature idem, la Welness Valley solo da noi, le macchine per il legno tirano. Un paio di autodromi ben funzionanti (e Valentino che è di Tavullia ma col cuore in Romagna) non ci mancano. La Fiera di Rimini è la seconda in Italia per fatturato e ci son pure due aeroporti: non in buonissima salute, ma ci sono. E poi, insomma, la esse romagnola è tutto un programma; l''inno nazionale', 'Romagna mia' lo conoscono ovunque; il 'lissio' è un marchio di fabbrica e Raoul Casadei il suo profeta.
Se 'loro' hanno i tortellini, noi abbiamo i cappelletti e i passatelli. Per tacere degli strozzapreti. Del Sangiovese, dell'Albana e la Cagnina. E la piada. La P-I-A-D-A. Che, a guardar bene, potrebbe essere, però,- un motivo - se non il motivo - più che valido per una secessione della secessione.
Davvero validissimo. Che si fa, la si mangia sottile alla riminese o più alta e spessa come nelle altre zone 'nordiste' della 'Magna Romagna'? C'è mica troppo da scherzare. Sono due mondi diametralmente opposti. Due distinte filosofie di vita. La piada è una 'roba' seria. Serissima. Ne va dell'identità di un popolo. Altro che Romagna (solatia) e Emilia.

Gianluca Angelini

dal blog Pendolarità

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