La fede nel post-pandemia: Francesco ci sfida a un corpo a corpo con la vita

Mercoledì, 27 Maggio 2020

Il Papa invia un Messaggio alle Pontificie Opere Missionarie rivolgendosi a tutta la Chiesa e indicandone la sorgente che la costituisce: «lo sguardo dell’incontro con Cristo». L’esperienza cristiana non è generata da «iniziative» o «discorsi», ma da un’attrattiva, che  «può avvincere il cuore degli uomini e delle donne» in quanto «attira il nostro piacere». I primi non dimenticarono mai «il momento in cui Gesù toccò loro il cuore: “Erano circa le quattro del pomeriggio (Gv 1,39)». È una esperienza che si dilata per un contagio di stupore e gratitudine, senza i quali «perfino la conoscenza della verità e la stessa conoscenza di Dio, ostentati come un possesso da raggiungere con le proprie forze, diventerebbero di fatto “lettera che uccide” (cfr. 2 Cor 3,6)». 

Il Papa sottolinea la semplicità di questa vita, che non è fatta di «cammini di formazione sofisticati e affannosi per godere di ciò che il Signore dona con facilità». Il cristianesimo non è riservato ad ambiti clericali, «Gesù ha incontrato i suoi primi discepoli sulle rive del lago di Galilea, mentre erano intenti al loro lavoro. Non li ha incontrati a un convegno, o a un seminario di formazione, o al tempio». Francesco ha il tono chiaro di chi descrive un’esperienza, che non può essere sostituita da complicati progetti avulsi dalla vita reale: «non si tratta di inventare percorsi di addestramento “dedicati”, di creare mondi paralleli, di costruire bolle mediatiche in cui far riecheggiare i propri slogan».

Bergoglio ripropone due testi dell’allora card. Ratzinger, rivelando una profonda sintonia con il suo predecessore, che stupirà molti – compresi non pochi, sedicenti, “ratzingeriani” – ma che non sfugge ad una lettura attenta dell’insegnamento dell’attuale pontefice.

La prima, che già riecheggiava in una sua recente intervista (Il Papa confinato, a cura di A. Ivereigh), riguarda l’origine carismatica della stessa istituzione ecclesiale. Francesco sottolinea come «nella Chiesa anche gli elementi strutturali permanenti – come i sacramenti, il sacerdozio e la successione apostolica – vanno continuamente ricreati dallo Spirito Santo», riferendosi all’intervento al Convegno mondiale dei movimenti ecclesiali del 1998, in cui il card. Ratzinger affermò che lo stesso «concetto di istituzione si sbriciola fra le mani di chi provi a definirlo con rigore teologico. […] Che l’unico elemento strutturale e permanente della Chiesa sia un “sacramento” significa, al contempo, che esso deve essere continuamente ricreato da Dio. […] Che la Chiesa sia non una nostra istituzione bensì l’irrompere di qualcos’altro […] è un fatto dal quale consegue che non possiamo mai crearcela da noi stessi. […] Essa vive e viene continuamente ricreata dal Signore quale “creatura dello Spirito Santo”» (Nuove irruzioni dello Spirito, San Paolo, 16-18.41). La Chiesa è dunque «l’irrompere di qualcos’altro», e, come sottolinea l’attuale pontefice, «il suo tratto genetico più intimo [è] quello di essere opera dello Spirito Santo e non conseguenza delle nostre riflessioni e intenzioni». Quando «nella missione della Chiesa non si coglie e riconosce l’opera attuale ed efficace dello Spirito Santo», anche le iniziative e i contenuti dell’azione pastorale si riducono al «dar gloria a sé stessi o rimuovere e mascherare i propri deserti interiori». 

La seconda riguarda «l’idea ingannevole che una persona sia tanto più cristiana quanto più è impegnata in strutture intra-ecclesiali mentre in realtà quasi tutti i battezzati vivono la fede, la speranza e la carità nelle loro vite ordinarie, senza essere mai comparsi in comitati ecclesiastici». Il Papa cita l’intervento al Meeting di Rimini del 1990, nel quale il Card. Ratzinger, a proposito della necessità di un’autentica riforma della Chiesa, metteva in evidenza il rischio di un attivismo ecclesiocentrico, il quale finisce per diventare come «uno specchio che riflette solamente se stesso» riducendosi a «una finestra che, invece di consentire uno sguardo libero verso il lontano orizzonte, si frappone come uno schermo tra l’orizzonte e il mondo, perdendo così il suo senso» (La Chiesa, Paoline, 104). Francesco riprende questa immagine invitando a rompere «tutti gli specchi di casa», senza perdere tempo ad «elaborare piani auto-centrati sui meccanismi interni». In questa prospettiva segnala alcune «insidie e patologie», a partire dalla pretesa di taluni organismi che pretendono «di esercitare supremazie e funzioni di controllo», come se «la Chiesa fosse un prodotto delle nostre analisi, dei nostri programmi, accordi e decisioni». Si tratta di una «tentazione elitista» che isola dal popolo, il quale «viene guardato come una massa inerte, che ha sempre bisogno di essere rianimata e mobilitata». Il giudizio di Francesco è radicale: «una Chiesa che ha paura di affidarsi alla grazia di Cristo e punta sull’efficientismo degli apparati è già morta, anche se le strutture e i programmi a favore dei chierici e dei laici “autooccupati” dovessero durare ancora per secoli».

Le parole del Papa sono particolarmente illuminanti nel contesto che stiamo vivendo, poiché in questa «pandemia si avverte dovunque il desiderio di incontrare e rimanere vicino a tutto ciò che è semplicemente Chiesa», evitando di «complicare ciò che è semplice». In un tempo in cui non mancano «laboratori intellettuali, dove tutto viene addomesticato, verniciato secondo le chiavi ideologiche di preferenza», Francesco invita ad «una più intensa “immersione” nella vita reale delle persone». In una circostanza nella quale siamo stati così drammaticamente investiti dalla realtà e provocati a riscoprire la domanda sul senso del vivere, ritrovandoci «sulla stessa barca» con tutti, credenti e non credenti, è ancora più urgente uscire «dal chiuso delle proprie problematiche interne» e sfuggire «all’insidia dell’astrazione», che si ripresenta puntualmente in ogni deriva ideologica. Francesco propone «un corpo a corpo con la vita in atto», a partire dalle «domande ed esigenze reali», chiedendo «che il Signore ci renda tutti più pronti a cogliere i segni del suo operare», ovvero a riconoscere «i germogli di vita teologale che lo Spirito di Cristo fa sbocciare e crescere dove vuole Lui, anche nei deserti».

Saremo così semplici, appassionati alla realtà e alla nostra umanità, da essere all’altezza di questa sfida?

Roberto Battaglia