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Elezioni: la politica si capisce guardando la vita reale

Lunedì, 05 Marzo 2018

Come tanti ho fatto nottata seguendo la #maratonamentana. Mentre si affastellavano exit poll, proiezioni, primi dati ufficiali, i volti e le parole dei giornalisti in studio - tutti navigati e di testate prestigiose - lasciavano trasparire un certo stupore per l'esito della consultazione elettorale. A casa, davanti al televisorino, sinceramente, mi stupivo del loro stupore. Possibile non tenessero in considerazione una debacle del Pd? Un Movimento 5 Stelle così forte? Una Lega ben oltre Forza Italia? Possibile? Possibile non avessero annusato l'aria, non avessero tenuto conto delle tante parole di rabbia, malcontento, fastidio, rovesciate dalle persone, dai concittadini, su ogni piattaforma immaginabile? Possibile, a quanto pare.


   Un paio di giorni fa, concionando con un collega – appassionato di retroscena - ci si chiedeva quali percentuali potessero prendere i diversi partiti. Senza certezza alcuna l’avevo buttata là:  a spulciare sui social media, ad ascoltare le chiacchiere da bar e da treno, non mi sembrava irreale un risultato pentastellato sul trenta per cento un Pd sul venti per cento. ‘Uhm – aveva commentato – interessante: ma tu, a forza di fare il pendolare, sei un po’ tarato sul treno. Su queste parole dal basso, sulla gggente’.


   Aveva ragione. Sono tarato sul treno. Però, dal treno, il Paese lo guardo un po’ più da vicino. Lo vedo, lo sento, lo ‘odoro’ perfino. E per arrivarci ogni giorno, al treno, attraverso – a piedi - una città, i suoi parchi. Mi imbatto nei suoi abitanti, persino nei cartelloni pubblicitari e negli avvisi affissi sui tabelloni di metallo.


   Di convogli – sferraglianti sui binari solitamente in ritardo - ne prendo di tutti i tipi, a tutte le ore. Passo dalle Frecciabianca ai regionali. Dalla mattina, alla sera. Alla notte: quando ci si squadra per bene, prima di scegliere la carrozza in cui sedersi, per stare vicino a persone che possano parere ‘per bene’. Si vedono tante cose. Si ascoltano tante cose: perché tra un laptot e un tablet appoggiati sul tavolino di una Freccia o sulle ginocchia su un Regionale, le persone ancora parlano. Di quotidianità spiccia che, spesso, diventa politica. Il degrado dentro o fuori le stazioni; i treni che non arrivano mai in orario; le difficoltà pendolari non sono parole circoscritte al viaggio ma esondano verso un Paese – e chi lo gestisce - che viene vissuto come in decadimento. Ad attraversare una sala d’aspetto o un corridoio – che a Rimini è di fatto un  sala d’aspetto –  o ad attraversare un parcheggio dove di sera, sotto una tettoia, si rannicchiano infagottati gli ‘invisibili’, un tempo si sentiva dire ‘povera gente’, oggi si sente dire ‘guarda che gente’. E magari si tira dritto in fretta, per allontanarsi il prima possibile. Chè i tempi e le paure cambiano. E di questi tempi e di queste paure la politica dovrebbe occuparsi. E pure noi giornalisti. Se si vuole capire.
   In carrozza, si ascolta quello che le persone si raccontano: e quando parlano di politica l’intreccio è con la vita vissuta. Non con il retroscena di Palazzo, con le alchimie delle segrete stanze. Con i rapporti di forza interni. L’intreccio è con le bollette che ogni anno aumentano, con la benzina cara ‘perché ci sono ancora le accise legate alle guerre coloniali’, con l’ondata migratoria. Che intimorisce. Con il lavoro e l’economia che, se gli indici parlano di ripresa, la vita di tutti i giorni racconta, invece, una percezione totalmente diversa, con il Jobs Act che è sembrato un regalo agli imprenditori e i genitori che parlano al telefonino – a voce alta in mezzo allo scompartimento -  ai figli volati all’estero o ancora a casa malgrado l’età. Invece su tutte ‘ste cose, la politica poco si sofferma. E noi giornalisti, spesso, ancora meno.


   Non ascoltiamo abbastanza. Si capirebbe bene - ascoltando - che, a volte, la politica si dipana per scelte semplici, terra-terra.  Che a volte è sufficiente prestare orecchio alle chiacchiere in libertà. Già perché nei giorni scorsi, nelle scorse settimane quello che si sentiva ripetere più spesso - quasi un mantra - era 'saranno quello che saranno i 5 stelle ma gli altri li abbiamo già provati tutti e guarda come siamo messi..'. Non una finissima disamina, forse. Ma perché non darle alcun credito? Perché non credere che le cose, possano essere più basiche di quanto si pensi?
   Se nella vita di tutti i giorni funzionano dicotomie come bello/brutto, simpatico/antipatico, nuovo/vecchio, perché non credere che possano funzionare anche nella politica. Il referendum costituzionale Renzi lo aveva perso - banalmente - perché lo aveva trasformato in un voto sulla sua figura. E gli italiani avevano scelto sulla base di un giudizio simpatico/antipatico, non sull'opportunità di mantenere così com'è una Costituzione di cui la maggior parte fa fatica a ricordare il primo articolo. Simpatico o antipatico. Nulla più. Ieri il giudizio si è basato anche sulla contrapposizione vecchio/nuovo, sul 'proviamo anche questi, che gli altri…'. Una cosa semplice.
   Non un granché, forse, come motivazione da impaginare - su un giornale o giornalone che sia - o da riportare seduti in uno studio televisivo. Poco raffinata, forse. Ma utile per non ritrovarsi, poi, stupiti. All’improvviso.

Gianluca Angelini

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