Meeting 2016. L'Islam e l'Europa, un approccio inedito
“L’integrazione è possibile solo perché c’è Marco, dice Wael Farouq, egiziano, docente alla Cattolica di Milano, musulmano, ormai amico di vecchia data del meeting e di Comunione e Liberazione. Di tale Marco aveva parlato in un video un senegalese che da sei anni non vedeva la moglie e i bambini e non aveva i soldi sufficienti per comprare il biglietto. “Ho chiamato Marco e mi ha dato la somma che mancava”. Un piccolo aneddoto uno fra i tanti, a storia per dire che tutto cambia, tutto assume un’altra prospettiva, quando non si guarda più la realtà con le lenti dell’ideologia e si pone in primo piano la persona umana.
Ricco di spunti e di provocazioni interessanti l’incontro di questa mattina dal promettente titolo “Quale Islam per l’Europa?. A partire dai due protagonisti, Farouq, appunto, e Aziz Hasanović, Gran Muftì dei musulmani di Croazia, cioè un’autorità suprema riconosciuta da tutte le comunità islamiche e dallo Stato. Hasanović è uomo dalla biografia drammatica: nell’eccidio di Srebrenica 36 membri della propria famiglia sono stati sterminati. E oggi è un uomo che va nei paesi musulmani a chiedere di riconoscere ai cristiani gli stessi diritti che i musulmani hanno in Europa e che l’anno scorso, a La Mecca, davanti a 57 rappresentanti di paesi islamici ha detto che si deve seguire l’approccio di papa Francesco. Farouq ha raccontato di avergli chiesto come faccia a fare tutto questo dopo quello che è capitato alla sua famiglia. E lui ha risposto “Perché non dimentico”.
Dal Gran Muftì Hasanović si sono ascoltate parole inequivocabili di condanna degli attentati terroristici (da Nizza all’assassinio del sacerdote francese) e della guerra che lo Stato islamico ha dichiarato al mondo. E questo giudizio inequivocabile deriva, lo si è capito ascoltandolo al Meeting, da una concezione dell’Islam che sarebbe riduttivo chiamare moderata rispetto ad una estremista. Il Gran Muftì ritiene che sia quella giusta, originale, che si basa sull’autentica possibile lettura del sacro testo del Corano. Quindi non ci si può suicidare, quindi non si possono uccidere innocenti. La sua è un’apologia dell’Islam (da tenere per distinto dall’islamismo) come religione della pace e aperta alla tolleranza. Egli ritiene che chi abbraccia il terrorismo, coloro che fomentano la guerra, siano una esigua minoranza rispetto allo stimato miliardo e mezzo di musulmani sparso nel mondo. Una minoranza che usa e abusa strumentalmente della religione.
Il Gran Muftì però non si nasconde dietro a un dito. Sa bene che gli europei stanno conoscendo un Islam diverso, che, per esempio, non riconosce i diritti della donna o impone obblighi nel modo di vestire. Tutto ciò dipende da due contraddizioni, nate dall’incontro dell’Islam con le tradizioni umane e con il contesto sociale.
Alcuni musulmani hanno rifiutato determinati costumi per paura che possano essere contrari alla religione. Costoro riducono la religione ad alcuni comportamenti, come la scelta dei vestiti, anche se sconvenienti per l’ambiente in cui si vive, provocando introversione ed isolamento sociale.
Altri hanno inserito molti costumi umani nella religione considerandoli parte integrante di essa, malgrado siano invece in completa contraddizione; hanno inserito negli insegnamenti religiosi ciò che è parte del loro patrimonio culturale. La conseguenza drammatica è che molti musulmani non conoscono bene la loro religione e non riescono a convivere con l’anima del tempo e del luogo in cui si trovano, perciò li troviamo confusi e perplessi.
È questa probabilmente la parte più interessante dell’intervento del Gran Muftì, che viene da un paese, la Croazia, dove si è affermato un modello di convivenza che supera i limiti dell’assimilazionismo alla francese e del multiculturalismo britannico. E dove non si ha notizia di musulmani attirati dalle sirene del radicalismo islamista.
Alla lezione di Hasanović è seguito l’appassionato intervento di Wael Farouq del quale come sempre è utile non disperdere alcune perle.
A suo giudizio islam e cristianesimo hanno di fronte la stessa sfida nel contesto europeo e mondiale: porre la persona e i desideri del cuore al centro della loro esperienza. Ha rivendicato anche per l’islam l’uso della ragione, affermando che non può esserci un buon musulmano se non con la ragione. Quando la forma diventa più importante della persona si scivola verso l’ideologia, e i nome dell’ideologia si uccide.
Farouq spiega l’assenza dei musulmani dalla scena pubblica italiana: “Vengono da paesi dove regnano dittature.” Spiega la differenza fra musulmano e islamista: “Il musulmano crede che Dio lo protegga, l’islamista vuole proteggere Dio”. Quale Europa, si chiede, quale cultura? Aggiunge: “Viviamo nella cultura del nulla. Provate a chiedere a qualcuno cosa significhi libertà. La risposta sarà quella di Caino dopo aver ucciso il fratello: a me che importa? I grandi valori occidentali sono stati svuotati del loro significato”.
E dopo essersi con passione avventurato in una esegesi del Corano per dimostrare che non incoraggia la poligamia, conclude con questa consegna: “Il cuore pulsante è alla ricerca dell’amore e l’amore è la condizione della fede”.
Meeting 2016. Tu sei un bene per me perchè sei un dono
Conclude in crescendo, lo scrittore Luca Doninelli, il suo intervento sul tema del Meeting: Tu sei un bene per me. Nel mondo che sta arrivando –e che certamente cambierà le nostre città e le biografie dei nostri figli – si tratta di tornare a quella certa idea per cui un uomo vale semplicemente perché è un uomo. Questa cultura ha costruito una forma di vita buona per tutti. Il tono in qualche modo si fa apocalittico, sulla scia del suo del suo ultimo romanzo Le cose semplici dove immagina in che modo riprende la vita in un mondo completamente collassato. “Il mondo sta cambiando, a chi arriverà dopo di noi dovremo poter dire così: Amico, chi ti ha preceduto ha lavorato secoli e secoli per farvi comprendere che il valore della tua vita non è nelle mie mai, perché nemmeno il mio è nelle mie mani. E anche se adesso mi uccidi non lo dimenticare: tutto è gratis, ognuno di noi è un dono. Per questo tu sei un bene per me. Spero anche tu un giorno lo possa ripetere; se non tu almeno i tuoi figli o i figli dei tuoi figli”.
Non è facile fare una sintesi sistematica del discorso di Doninelli perché, per quanto articolato in punti, non seguiva la logica di un ragionamento ma si presentava come un mosaico con tante osservazioni sulla vita, tanti racconti, molti riferiti anche ad episodi della vita personale, alcuni rimandi letterari (Non è un paese per vecchi, di Cormac Mc Cartgye, l’Amleto di Shakespeare), citazioni esplicite come quella dello scrittore americano David Foster Wallace. “Se pensi a quelle volte nella vita che hai trattato le persone con un amore e una correttezza straordinari, e te ne sei preso cura in maniera totalmente disinteressata, solo perché avevano un valore come esseri umani... Ecco, la capacità di fare altrettanto con noi stessi. Di trattare noi stessi come tratteremmo un buon amico, un amico prezioso. O un nostro bambino che amiamo più della vita stessa. E penso che sia possibile arrivarci. Penso che in parte il compito che abbiamo sulla terra sia imparare a fare questo”.
Nel tema ci entra direttamente raccontando che nella scuola a cui collabora (la Oliver Twist promossa dai fratelli Figini) c’è un’ora speciale che ha per titolo “tutto è per me”. Ragazzi e insegnanti sono invitati a riparare ciò che si è rovinato per usura, per incuria o per agenti esterni. C’è però il rischio d i limitare il “tutto è per me” ad un’idea utilitaristica: un’aula pulita è meglio di un’aula sporca. In questo caso “per me” diventa “nel mio interesse”. In realtà “per me” può essere letto “niente mi appartiene”. La realtà, aveva spiegato poc’anzi, obbedisce a leggi che non ho stabilito io. Questo non essere mio è per me. Tutta la realtà mi è donata. Riparo il banco perché mi è dato e se faccio questo poi non posso trattare il mio compagno come se fosse un cane. Tutta la civiltà dipende dalla stima che abbiamo per un tu.
Ma fra l’io è il tu c’è uno spazio drammatico, in cui la libertà si rimette in gioco. Fra l’io è il tu c’è un terzo. C’è uno spazio di silenzio fra me e te. Come il tu diventi davvero un tu irriducibile? E qui Doninelli racconta l’esperienza di compagnia fatta ad un amico morente. Lui e gli amici lo andavano a trovare. “Le cose di cui parlavano o i testi che insieme leggevamo non erano intese a colmare il grido che proveniva da quegli occhi. Non perché non fossero vere ma perché la libertà esige sempre un salto dell’io. E lui si trovava davanti al salto più grande e il salto toccava a lui. Era chiaro che la risposta al quel grido silenzioso non stava nelle nostre parole o nell’incontro con le nostre povere persone ma nell’incontro con qualcuno che non eravamo noi. Fra me e te c’è un silenzio duro da accettare ma in questo silenzio c’è la radice del bene. Io non sono la risposta alle tue domande, tu non sei la risposta alle mie”.
La realtà può assumere il volto di un nemico. Doninelli commenta in modo originale parole del Vangelo di solito mai ben capite come il porgere l’altra guancia e l’amare i propri nemici. Per lo scrittore milanese amare i propri i nemici si può declinare in tre modi: amare la vita anche al cospetto di chi te la vuole togliere; amare la vita anche dei nostri nemici; Non smettere di mare ciò che di più bello abbiamo ricevuto anche difendendolo da quella parte di noi stessi che non lo comprende più. E qui Doninelli racconta l’esperienza di un viaggio a Parigi con un amico dei tempi dell’Università. Al secondo giorno fecero una litigata furiosa su un tema di filosofia. Stettero due giorni senza parlarsi e nemmeno potevano tornare a casa perché il biglietto era vincolata ad una certa data. !”Il mio nemico in quel momento era il mio amico”.Cosa ha sbloccato la situazione? “La consapevolezza che io ero il nemico di me stesso. Ho ricordato ciò che avevo ricevuto. Avevo conosciuto una promessa di felicità che mi era stata donata senza che ne avessi alcun merito. Me ne resi conto per la prima volta. Non è facile a 23 anni riconoscere che c’è un altro che ha avuto pietà del mio niente. Questo dono era la fonte della mia gioia. Chi aveva donato tutto? Gesù Cristo era il suo nome. Una bellezza immeritata”.
Meeting 2016. In ascolto della "voce" dell'universo
Non capita tutti i giorni di ascoltare la “voce” dell’universo. Laura Cadonati, docente di fisica negli Stati Uniti, componente dell’équipe scientifica che ha portato alla conferma dell’esistenza delle onde gravitazionali, ne ha offerto un saggio al pubblico del Meeting. Ha fatto ascoltare l’ultimo grido emesso da due buchi prima di entrare in collisione fra loro e dar vita ad un unico buco nero. Quando tutto ciò è avvenuto? Beh, non esattamente l’altro giorno: 1,3 miliardi di anni fa.
Il Meeting ha una lunga tradizione di divulgazione scientifica: ogni anno ci sono mostre o incontri con scienziati che raccontano le loro avventure lungo i sentieri della conoscenza. Quest’anno ha consentito al grande pubblico di capire qualcosa di più di una scoperta che è avvenuta nemmeno un anno fa, il 14 settembre 2015. E non si tratta di una scoperta di poco conto: si è aperta, come recitava il titolo dell’incontro e come ha sottolineato più volte il moderatore Marco Bersanelli, una nuova finestra sull’universo che può portare ad approfondire questioni affascinanti come il Big Bang.
Le onde gravitazionali ci sono e arrivano fino a noi. Albert Einstein le aveva presupposte come conseguenza della sua teoria della relatività. Aveva anche aggiunto che difficilmente l’uomo sarebbe riuscito a misurarle. Il grande genio si era sbagliato: nel 2015, esattamente cento anni dopo la scoperta della teoria della relatività, due interferometri (si chiamano così) del progetto LIGO, situato uno in Lousiana e l’altro nello stato di Washington, hanno rilevato al loro esistenza. D’altra parte il grande scienziato può essere scusato: la rilevazione delle onde gravitazionali è davvero difficile. Al passaggio di un'onda, infatti, le distanze fra i punti nello spazio tridimensionale si contraggono ed espandono ritmicamente, ed anche gli strumenti di misura della distanza subiscono la medesima deformazione. È una questione di curvatura e di distorsione dello spazio.
Negli Stati Uniti (con molte difficoltà iniziali) hanno avviato il progetto LIGO. Lo strumento per rilevare le onde sono due tunnel lunghi cinque chilometri e uniti fra di loro a forma di “L”. Dentro questi tunnel vengono sparati fasci laser che, non subendo deformazioni, riescono a registrare anche un cambiamento di distanza infinitesimale. Uno strumento analogo, realizzato dal progetto VIRGO, esiste anche in Italia, in provincia di Pisa,
È con questi strumenti che gli scienziati, come ha spiegato la professoressa Cadonati con sufficiente chiarezza anche per chi non sa nulla di fisica, sono riusciti a rilevare l’impatto fra due buchi neri avvenuto 1,3 miliardi di anni fa. Nessun telescopio, anche il più potente, non riuscirebbe a rilevare il fenomeno. Solo intercettando le onde gravitazionali, che sono provocate dalla collisione fra le masse, è possibile conoscere questo aspetto dell’universo.
È una scoperta enorme, frutto del lavoro in équipe di mille ricercatori, ma è solo un punto di partenza. Le conseguenze forse le conosceremo fra qualche decennio.
Non è finita. Il professor Roberto Battiston, presidente dell’Agenzia spaziale italiana, ha deliziato il pubblico del Meeting con il progetto LISA, a guida italiana. Al centro c’è sempre la ricerca sulle onde gravitazionali, solo che invece che farla sulla terra, viene compiuta nello spazio, che – ha spiegato – è il luogo più adatto per studiare la gravità. Sono stati lanciati tre satelliti alla distanza di cinque milioni di chilometri uno dall’altro. Grazie ad un interferometro laser (sempre lui), sarà misurata in modo preciso la distanza fra di essere e così potranno essere rilevati eventuali minime modificazioni attribuibili ad onde gravitazionali di passaggio. Con l’esperimento di test di Lisa Pathfinder, avviato nel dicembre 2015, sono stati utilizzati cubi di oro e platino in condizione di caduta libera, soggetti cioè solo alla forza di gravità. E i risultati sono stati positivi.
L’universo ci parla e, con gli strumenti giusti, riusciamo a intercettare i suoi messaggi. Si è aperta una finestra che certamente porterà lo sguardo dell’uomo molto lontano.
Domani al Tiberio presentazione libro di mons. Negri
Domani, domenica 21 agosto alle ore 19 (Cinema Teatro Tiberio) viene presentato il libro di Mons. Luigi Negri “False accuse alla Chiesa. Quando la verità smaschera i pregiudizi” (Gribaudi Editore) nella versione ristampata con la prefazione di Mons. Luigi Giussani. All'incontro, promosso dalla Fondazione Giovanni Paolo II, sSarà presente l’Autore.
“Se si eliminasse dalla storia degli ultimi 250 ani la Chiesa cattolica, e il magistero dei Papi in particolare, - afferma nel volume monsignor Negri - noi avremmo il prevalere indiscusso e invincibile dell’ideologia. L’unica forma di resistenza organica all’ideologia e capace di catalizzare altri fattori di resistenza è indiscutibilmente quella della Chiesa cattolica”
20 agosto
Meeting al via con papa e presidente | Il papà lo sgrida lui lo denuncia: "Coltiva droga" | Abusi su minori, educatore in manette
Meeting 2016. La lezione di Tunisi su dialogo e società civile
C’è una lezione che arriva da Tunisi. Una lezione che ha contenuti interessanti anche per noi che stiamo dall’altra parte del Mediterraneo. Ascoltando la lezione, il titolo del Meeting “Tu sei un bene per me” appare meno uno slogan o un imperativo moralistico ma assume il volto di una esperienza concreta. Imperfetta come tutte le esperienze, ma con il vantaggio di indicare una strada possibile. Faceva impressione, oggi pomeriggio nell’Auditorium del Meeting, ascoltare Mohamed Fadhel Mahfoudh, Premio Nobel per la Pace 2015, e Fadel Moussa, docente universitario e membro dell’Assemblea costituente della Tunisia, ripetere più volte che ciò che è accaduto nel loro Paese confermava che è vero “Tu sei un bene per mese”. Una situazione paradossale, se si pensa che spesso è dalla Tunisia che provengono i foreign fighters dello stato islamico o i terroristi jihadisti.
Ricordate la Tunisia? Da lì sono partite le “primavere arabe”. Ricordate la rivoluzione dei gelsomini e l’ondata di grandi speranze che aveva suscitato? Anche a Tunisi hanno corso il rischio che dopo la “primavera” si tornasse all’inverno in cui sono ripiombati molti paesi arabi. Nel 2013 si era creata una situazione di impasse che rischiava di bloccare il processo democratico: divisioni fra i partiti, divisione fra diversi settori della società, attentati terroristici. Per sbloccare la situazione è scesa in campo la società civile rappresentata dall’ormai famoso quartetto a cui nel 2015 è stato assegnato il Premio Nobel per la Pace. Erano i dirigenti della Confindustria locale, del sindacato dei lavoratori, della Lega per i diritti umani ed il presidente dell’ordine degli avvocati, Mohamed Fadhel Mahfoudh, che oggi era al Meeting.
Quale sia stato il loro merito lo ha spiegato lo stesso Mahfoudh “In mezzo allo duro scontro fra i vari partiti (c’era stato anche l’assassinio di un deputato), noi rappresentanti della società civile abbiamo svolto un enorme ruolo di mediazione. È stato uno sforzo enorme, basato sull’ascolto delle ragioni dell’altro, e alla fine è stato raggiunto un compromesso”. Cioè è stata approvata la nuova Costituzione democratica della Tunisia.
Il professor Moussa la racconta così: “La Tunisia è un paese omogeneo, quasi non ci sono minoranze. Il tratto comune è l’identità arabo-musulmana. Nel confronto con gli islamisti radicali, sottolineavano che anche noi eravamo per conservare questa identità. C’era però bisogno di mettere insieme cultura nazionale e modernità. Quindi un’identità nazionale, ma aperta al confronto con l’esterno”.
Un esempio di cosa significhi lo cita Tania Grotti, docente di Istituzioni di diritto pubblico all’Università di Siena e conoscitrice del processo costituente vissuto dalla Tunisia. “Nello stesso articolo, oggetto di grande dibattito all’Assemblea, si dice che lo stato vigilia che nelle scuole sia trasmessa l’identità nazionale e la lingua araba, e nello stesso che siano insegnate le lingue straniere e la cultura dei diritti umani”. La nuova Costituzione è stata approvata con 200 voti su 216 membri dell’assemblea Costituente. È stato così evitato il ricorso al referendum. La Costituzione della Tunisia – ha spiegato – è stata il frutto di un processo di partecipazione, condiviso, basato sul consenso, finalizzato a creare unità e coesione sociale. La costituzione tunisina ha consentito lo sviluppo di una vera vita democratica, con ampia libertà di espressione e, ad esempio, anche libertà accademica, che in altri paesi non è affatto scontata”.
Ma – chiede il moderatore, il professor Andrea Simoncini, dell’Università di Firenze, - c’è qualcosa di particolare, di specifico, un genius loci, che ha consentito che in Tunisia accadesse tutto questo e non si siano imboccate strade pericolose? Risponde Mahfoudh: “Ciò che siamo dipende dalla nostra lunga storia. Siamo stati un paese cristiano, musulmano, abbiamo conosciuto anche l’illuminismo, siamo stati un protettorato francese. Con Bourghiba abbiamo conosciuto lo Stato moderno, negli anni Venti del Novecento da noi già si parlava di libertà delle donne. Siamo il primo paese musulmano che ha abolito la poligamia e riconosciuto i diritti delle donne. Poi c’è stato anche i periodo della dittatura di Ben Alì, ma la Tunisia è sempre stata aperta, tollerante”.
Il proseguimento dell’esperienza democratica sancita dalla nuova Costituzione non è facile. In queste ore sta nascendo un governo di unità nazionale. Le sfide che la Tunisia si trova ad affrontare solo, oltre che la lotta al terrorismo (si ricordi l’attentato al Pardo e sulla spiaggia) sono a livello economico e sociale. C’è povertà, c’è bisogno di lavoro, di nuovi investimenti, hanno sottolineato i relatori.
Resta l’esempio di un paese arabo-musulmano che ha saputo trovare nel dialogo e nella valorizzazione del ruolo della società civile i punti di appoggio sui quali costruire una nuova pagina della propria storia.
Meeting 2016. La verità di quel cartello dei profughi
Da un ex collaboratore del Meeting, riceviamo e volentieri pubblichiamo
Caro Meeting,
tu sei un bene per me.
Scusate se non siamo affogati. E’ la frase di un cartello tenuto in mano da alcuni profughi e riprodotta su una parete della mostra sui migranti dell’edizione del Meeting che oggi è iniziato.
Scusate se non siamo affogati. Potrebbero dirlo anche gli amici del Meeting con cui ho avuto la fortuna di lavorare, ma so bene che il Meeting è una cosa così complessa che non c’è tempo per queste cose.
37sima edizione e siamo ancora qui a interessarci del mondo, a cercare il bello, a non avere paura di essere giudicati da chi magari ogni giorno deve fare quello di lavoro.
Ci siamo ancora tra coloro che vengono e se ne vanno, tra coloro che usano e gettano un luogo in cui è possibile essere se stessi, in cui allo stesso tempo è sempre richiesto un rispetto per l’altro e i litigi li lasciamo al campionato o al fantacalcio.
Ci sono aziende (sempre brutte e cattive) che vengono a Rimini a farsi conoscere da persone capaci di affezionarsi, gente da ogni dove che vuole incontrare persone curiose capaci di innamorarsi e tornare con il cuore a casa pieno di gioia per una storia sentita e che ti ha insegnato qualcosa.
C’è gente felice di dare il proprio tempo per lavorare gratuitamente perché è bello costruire qualcosa (e cavolo, quanto è difficile nella vita costruire qualcosa) e quando lo deve raccontare non c’è tanto da spiegare ma solo dire “lo faccio perché mi rende contento”.
Scusate se non siamo ancora affogati e c’è gente che ci lavora al Meeting (si ci lavora proprio) e dentro quel lavoro dà tanto tempo in più per la passione e il desiderio di costruire qualcosa, gente che potrebbe lavorare in grandi aziende e le vedi tirare per la fiera un carretto, negli ultimi attimi di allestimento, o fare immedesimare in due ore i volontari con il grande scopo del Meeting (la mission la chiamerebbero aziendalmente) e il lavoro da fare ogni giorno (gli obiettivi li chiamerebbero sempre aziendalmente).
Ci siamo noi, quelli che per fare qualcosa di buono nel mondo abbiamo bisogno di qualcuno, abbiamo bisogno di qualcosa di diverso, abbiamo bisogno di qualcuno che ci insegni qualcosa, non per evadere da quello che facciamo ogni giorno, ma per fare meglio quello che dobbiamo fare ogni giorno.
Da oggi ogni mattina il Meeting sarà pulito come il primo giorno, le facce contente come il primo giorno, le magliette dei volontari, forse quelle, consumate come dopo una grande battaglia.
La battaglia della gente che ha voglia di fare, la battaglia di quelli che “everybody needs somebody” (potrebbe essere la sigla del Meeting), la battaglia di quelli che usano le domande per comprendere, la battaglia di quelli che la rivoluzione è il quotidiano e l’arma il loro cuore.
Scusateci ma abbiamo voglia di Meeting. Sì ancora, dopo 37 edizioni perché tu caro Meeting sei un bene per me e abbiamo voglia di imparare.
Buon Meeting
(Lettera firmata)
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