Referendum e sussidiarietà esperti divisi
La riforma costituzionale sulla quale siamo chiamati a votare il prossimo 4 dicembre intacca o non intacca il principio di sussidiarietà così importante per la dottrina sociale cattolica? In alcuni settori del mondo cattolico la risposta è che tale principio sia seriamente compromesso e lo si intuisce anche dal tema dell’incontro (Persona, sussidiarietà, famiglia) che la Fondazione Giovanni Paolo II organizza per domani sera il 29novembre al centro congressi Sgr con la partecipazione del senatore Gaetano Quagliariello e del giornalista Robi Ronza.
Un nostro precedente articolo aveva suscitato un vespaio di reazioni, per cui abbiamo provare a girare il quesito ad alcuni esperti.
Il professor Saverio Regasto, ordinario di diritto pubblico comparato all’Università di Brescia, firmatario del manifesto per il no promosso dal presidente emerito della Corte Costituzionale Valerio Onida, osserva che la riforma “si esprime per un neo centralismo statale, eliminando la legislazione concorrente e di fatto riducendo le Regioni a mero ente amministrativo”. “Gran parte delle attuali competenze regionali – spiega – vengono trasferite a Roma e ciò indubbiamente mette in discussione la sussidiarietà verticale. Lo Stato avoca a sé funzioni importanti come i trasporti o l’energia. Se un giorno decidesse di costruire una centrale nucleare a Rimini, nessuno potrebbe bloccarlo. È vero che i cittadini spesso hanno abusato del loro diritto di bloccare iniziative, però anche questo centralismo risulta pericoloso”. Il professore mette in rilievo il centralismo rispetto all’autonomia regionale, però quando si parla di sussidiarietà non si intende innanzitutto quella che riguarda il potere di autonoma iniziativa e risposta ai propri bisogni da parte dei cittadini? “Sì, è vero che la sussidiarietà non viene formalmente toccata – replica il professor Regasto – e che nella riforma non c’è alcuna norma in proposito, però temo che uno Stato centralista, una volta svuotate le competenze regionali, non si muova tenendo conto delle esigenze dei cittadini”.
Un altro costituzionalista schierato per il no, il professor Luca Antonini, dell’Università di Padova, condivide la sostanza di queste valutazioni. “Sussidiarietà verticale e sussidiarietà orizzontale vanno insieme. Il centralismo impedisce che ci siano esperienze locali interessanti come quelle attuate dalla Lombardia su sanità e buono scuola”. Meglio quindi un’Italia a macchia di leopardo, dove ciò che è stabilito per un territorio non vale per l’altro? “Lo diceva anche don Sturzo nel 1949. Non bisogna avere paura delle diversità locali, che sono un valore”. Visto che l’articolo 118 rimane inalterato, non è questo un antidoto per eventuali politiche stataliste antisussidiarie? “Penso che se rimane il decentramento, ci siano maggiori possibilità concrete di attuarlo. È anche il contesto istituzionale che può favorire o meno l’attuazione di politiche ispirate al principio di sussidiarietà”.
Sembra invece non avere questi timori il professor Stefano Zamagni, da una vita impegnato sulla questione decisiva della riforma del welfare. “No, - spiega – non bisogna fare confusione. La riforma ridisegna le competenze di Stato e Regioni, riservando allo Stato alcune materie come sanità e ambiente sulle quali adesso c’è una potestà legislativa concorrente, ma non tocca la questione della sussidiarietà. Probabilmente il testo non passerà, ma non ha modificato gli articoli 118 e 119 che trattano appunto del tema. Non mi pare neppure che sia un tema che sia al centro dell’attuale dibattito nazionale. Chi c’è che sostiene queste tesi del tutto sbagliate?”.
Alcuni settori del mondo cattolico – spieghiamo al professore - motivano il loro no proprio in ragione di una svolta antisussidiaria che sarebbe contenuta nella riforma. “Si confonde il decentramento, sussidiarietà verticale, - risponde Zamagni - con la sussidiarietà orizzontale e circolare, quella che riguarda l’iniziativa dei cittadini. Il principio è stato introdotto dalla riforma del 2001. Certamente in questi quindici anni è stato fatto poco o niente per darvi attuazione, ma questo è un altro problema che non c’entra nulla con il referendum. La sussidiarietà non la si applica per altri motivi”.
Che conclusioni trarre? Non c’è nella riforma un legame diretto fra compressione del decentramento legislativo e svuotamento della sussidiarietà. C’è però chi ritiene che un ritorno al centralismo possa nuocere anche ad una futura realizzazione della sussidiarietà e chi invece sottolinea che se l’articolo 118 è rimasta lettera morta, anche nell’attuale assetto costituzionale, dipende da altri motivi, più politici e culturali.
21 novembre
Criminalità e profughi | Quando è morta Maria Pia | Un fenicottero a spasso
Elezioni a San Marino: si va al ballottaggio
L’evento, temuto soprattutto dai partiti di governo, si è dunque realizzato. Per decidere chi governerà la Repubblica di San Marino nei prossimi cinque anni si dovrà fare ricorso al turno di ballottaggio. Nessuna delle coalizioni in lizza ha infatti raggiunto i voti necessari per aggiudicarsi almeno 30 seggi, su 60, nel Consiglio Grande e Generale. Ad affrontarsi fra due domeniche saranno la coalizione Adesso.sm (dove sono confluiti gli uomini di Ap, Upr e di Sinistra Unita) e quella di San Marino prima di tutto, formata dal Pdcs (la Democrazia cristiana del Titano), da Partito Socialisra, Psd e Sammarinesi.
Il ballottaggio, che si tiene per la prima volta, rappresenta un’incognita. Se si può fare riferimento all’esperienza italiana delle comunali, vince chi riesce a motivare di più il proprio elettorato, riportandolo tutto a votare e chi riesce a conquistare consensi nuovi. Si tratterà poi di vedere come si muoverà la coalizione Democrazia in movimento: se starà a guardare o appoggerà, magari nell’anonimato dell’urna, uno dei due contendenti.
È evidente che nel voto hanno pesato gli scandali che hanno portato all’arresto di personaggi eccellenti e la crisi economica, che ha ridotto la ricchezza del Titano e aumentato la disoccupazione,
Cosa è successo nelle varie coalizioni. In Adesso.sm la lista Repubblica Futura ha realizzato un risultato deludente, considerando che nel 2012 Ap e Urp avevano ottenuto complessivamente il 15 per cento, mentre nel voto di ieri la lista in cui sono confluite non ha raggiunto il 10 per cento. La lista Civico 10 cresce ed arriva a sfiorare il 10 per cento, mentre il primo partito della coalizione risulta Sinistra Socialista Democratica, che supera il 12 per cento. I seggi attribuiti sono 20: 6 a Repubblica Futura, 6 a Civico 10 e 8 a SSD.
Nella coalizione “San Marino prima di tutto” si vede un consistente calo della Dc (5 punti in meno), ma un più consistente tracollo dei due partiti socialisti che passano dal 12,1 al 7,12 (il Ps) e dal 14,32 al 7,74 (ilPsd), che ha praaticamente dimezzato i voti. La coalizione ottiene 25 seggi così suddivisi: 4 al Psd, 16 al Pdcs e 5 al Ps.
L’unico partito che ha visto sensibilmente aumentare i consensi è Rete (assimilabile come impostazione ai grillini nostrani) che passa dal 6,29 al 18 per cento, diventando il secondo partito della Repubblica. Complessivamente la coalizione Democrazia in movimento si aggiudica oltre il 23 per cento e 15 seggi, 12 a Rete e 3 a MD-SMI.
Niente da fare per le due liste non coalizzate (Persone libere e Rinascita democratica) che raccolgono rispettivamente il 2,1 e l’1,6 per cento e nessun seggio.
Questi i risultati definitivi delle tre coalizioni: Adesso.sm 31,45, San Marino prima di tutto 41,68, Democrazia in movimento 23,18.
Una curiosità: la coalizione San Marino prima di tutto si afferma decisamente nel voto estero (oltre il 57 per cento) che però non è stato sufficiente a ribaltare il risultato.
L’affluenza alle urne è stata del 59,67%, inferiore del 4,30 rispetto al 2012. Bisogna però considerare che l’elettorato di San Marino è suddiviso fra residenti nel territorio della repubblica e residenti all’estero. Fra i residenti l’affluenza è stata dell’83,9% che pur in calo di quasi quattro punti rispetto alle precedenti elezioni, è una partecipazione che non ha eguali in nessuna altra parte del mondo. Ad abbassare la media è l’affluenza degli esteri, pari al 12,77%, con un calo del 4,3% rispetto al 2012.
Lettera di Pivi: sul referendul avete visto giusto
"Sollecitato dall'intervento di Sacchini che trovo non condivisibile, - ci scrive l'architetto Nedo Pivi - devo ringraziare BuongiornoRimini per l'equilibrato e responsabile articolo "Referendum costituzionale, cattolici e posizioni strumentali" ora criticato dallo stesso Sacchini con motivazioni "preistoriche", tendenti a gettare ancora più confusione su questa delicata fase di transizione del nostro Paese.
A motivazione del No, frequentando ambienti ed associazioni del mondo cattolico, ne ho sentite anche di peggio; questioni e supposizioni che non hanno nulla a che fare con i quesiti referendari e che si vanno sommando alla canea di motivazioni contro il Governo e chi lo presiede. Anche l'accusa, ormai scontata a Renzi di aver "per primo" personalizzato il referendum, è da ridimensionare: in ogni caso così sarebbe andata a finire.
Ci si deve invece complimentare con gli organizzatori della bella iniziativa di ieri sera in Sala Manzoni, per la "saggezza" dei due personaggi - Luciano Violante e Mario Mauro - messi a confronto sul referendum, per pertinenza e qualità delle loro risposte: quello è il modo giusto con cui discutere, oltre i necessari chiarimenti nel merito dei quesiti, valutando soprattutto il contesto storico, politico e sociale in cui un evento così importante avviene".
Referendum, la sfida su ciò che accade il 5 dicembre
Si può discutere di referendum costituzionale senza un clima da giudizio universale, nel rispetto reciproco, e soprattutto con la consapevolezza che dal 5 dicembre in poi ci sarà comunque un nuovo lavoro da fare per cerca di tenere insieme questa Italia sbrindellata? Sì, si può, e la prova la si è avuta ieri sera in sala Manzoni a Rimini nel corso dell’incontro organizzato dal Portico del Vasaio. Certamente tutto reso più facile dalla presenza di un “non renziano per il sì”, come Luciano Violante, presidente emerito della Camera dei deputati, e del senatore Mario Mauro che ad un certo punto si è scherzosamente dichiarato un “violantiano per il no”. Non è che non siano mancati i colpi bassi o i luoghi comuni della propaganda, ma sono stati limitati e non hanno avuto il sopravvento sulla volontà di dialogo.
Origine e sviluppo di una riforma
È stato l’antipasto della serata. Violante fa un rapido volo sulla storia recente dell’Italia per dire che dopo il rapimento e assassinio di Moro il sistema dei partiti non tiene più. E subito dopo si comincia a parlare di riforme. In primo piano l’esigenza di stabilità che i costituenti, divisi fra loro dalla cortina di ferro, avevano tenuto fuori dalle regole per affidarla alla ricerca di equilibrio fra i partiti. Giudizio implicito: c’è bisogno oggi di introdurre in Costituzione regole che garantiscano la stabilità. Mauro invece sottolinea che questa riforma nasce e si sviluppa in modo sbagliato perché non è nata da un accordo di tutte le forze politiche come sarebbe necessario quando si devono scrivere le regole comuni. Lancia quindi l’idea di un’assemblea costituente. Violante gli risponde che non c’è un caso nella storia in cui convivano un parlamento e una costituente, il parlamento dovrebbe farsi da parte per far posto ad altri. Difficile. Quanto alla mancanza di un accordo ampio: nelle prime tre votazioni la riforma ha avuto anche il consenso del centrodestra. Dopo che è stato ritirato non ci si poteva fermare, altrimenti si consegnava il diritto di decidere ad una minoranza.
Italicum, deriva autoritaria e altre pillole
Arrivando al primo piatto, il moderatore Samuele De Sio vuole sapere quale equilibrio sia stato raggiunto nella riforma fra stabilità di governo ed esigenza di rappresentanza di tutti. Fa finalmente capolino il “combinato disposto”, cioè gli effetti perversi di riforma e legge elettorale insieme. Mauro parte all’attacco sostenendo che non c’è alcun equilibrio e subito punta il dito contro l’Italicum (la legge elettorale voluta da Renzi) che ha il difetto di far diventare ampia maggioranza quella che nel voto dei cittadini è una minoranza. Il parlamento in mano ad una forza politica avrebbe poi carta bianca per eleggere a suo piacimento il presidente della Repubblica, ci sarebbe insomma il rischio di uno strapotere del presidente del Consiglio. La governabilità non si decide per legge ma si costruisce con un accordo virtuoso fra le forze politiche.
Violante fa il becchino dell’Italicum e auspica pure lui che venga sostituito. Non ci sta invece sulla deriva autoritaria. Ed elenca uno dopo l’altra le novità che danno più potere ai cittadini: iniziative di legge popolare sui cui il parlamento ha l’obbligo di esprimersi, introduzione del referendum propositivo, abbassamento del quorum nel referendum abrogativo, statuto delle opposizioni, limiti all’uso dei decreti legge da parte del governo. È il fronte del no che, opponendosi a queste novità, limita i diritti dei cittadini.
Titolo V, e il valzer fra Stato e Regioni
E così siamo ad uno dei piatti forti del dibattito. Violante sostiene che la riforma del 2001 (quella che adesso viene cambiata) andava fatta perché era chiesta dai presidenti delle Regioni eletti direttamente dal popolo. Va al punto controverso e generatore di conflitti, e cioè le materie su cui Stato e Regione hanno potestà legislativa concorrente. Dice che il punto si risolve solo tenendo presente l’interesse dei cittadini, e fa l’esempio del sud con meno malati di tumore e più morti del nord dove i malati sono più numerosi. C’è insomma l’esigenza di diritti uguali per tutti. Sottolinea che la riforma concede più potere alle Regioni che hanno il pareggio di bilancio. Per Mauro l‘opposizione alla riforma del Titolo V è la madre di tutte le battaglie. Bisognerebbe calcolare quanto ci costa il trasferimento di alcune competenze dalle Regioni allo Stato. Si rischia di vanificare quanto fino ad oggi è stato costruito. Alla Corte Costituzionale sono in calo i casi di conflitto sulle materie concorrenti. Viene colpita la sussidiarietà, cioè il fatto che c’è qualcosa che viene prima dello Stato. Critica il modo con cui sarà composto il nuovo Senato e la contraddittorietà della permanenza di un organismo come la Conferenza Stato Regioni.
Cosa succede il 5 dicembre?
Come dessert finale, viene proposta una riflessione sulle ragioni comuni del vivere insieme e su come pertanto vada affrontato il risultato del referendum, sia che vinca il sì, sia che vinca il no. Mauro auspica che non si avveri quando detto da Agostino di fronte ai Vandali che saccheggiavano il suo paese: “Lo Stato è la banda che ha vinto”. Dice che occorre andare al fondo della propria umanità per trovare il modo di fare un percorso comune e che qualcosa cambi. Violante osserva che se vince il sì ci sarà da attuare la riforma, se vince il no ci sarà una situazione complicata da gestire. In ogni caso si apre una fase nuova che dovrà vedere il dialogo fra soggetti diversi. Se nasce un sentire comune fra la gente, anche le forze politiche dovranno prenderne atto.
18 novembre
Stuprano la sorella | Cassazione condanna maestra | Fulgor e Galli in grande stile
Asili ai privati: la questione sono i bisogni delle famiglie
Non si placa il dibattito sulla cosiddetta privatizzazione di alcune scuole comunali. L'assessore Mattia Morolli ci ha inviato questa lettera che volentieri pubblichiamo.
Gentile Direttore,
in una società che cambia così rapidamente come quella attuale diventa sempre più importante armonizzare i servizi primari alle mutate esigenze della comunità.
Nuove tipologie di offerta di servizi in grado di intercettare in maniera più dinamica e flessibile i diversi modelli di famiglia oggi presenti anche a Rimini. A me piace parlarne al plurale, le famiglie, perchè non esiste più un modello unico, stabile e definito, così come conosciuto fino a qualche anno fa, ma tante forme diverse frutto della diversificazione dei modelli sociali, lavorativi e occupazionali.
Questo vale a maggior ragione per i servizi per l'infanzia, che tradizionalmente risentono più di altri dei ritmi lavorativi dei genitori e dei cambiamenti della ‘forma’ famiglia.
Per decenni ci si è basati su orari e tempi standardizzati omogeneizzati a una tipologia famigliare e lavorativa oggi profondamente cambiata. Oggi sono entrambi i genitori a dover lavorare, magari in orari diversi da quelli tradizionalmente intesi “di ufficio”, e magari il fine settimana stando invece a casa durante la settimana. Che piaccia o meno, che lo si voglia o no, questa è la realtà che viene rappresentata da chi viene a fare domanda ai nostri servizi educativi.
Capita non di rado, anzi molto spesso, che queste richieste vengono esternate agli uffici in cui le famiglie vengono ad iscrivere i propri figli; e in altri casi la richiesta viene fatta direttamente agli asili. Sono forse queste mamme e questi papà ‘genitori snaturati’ o che non amano i propri figli?
Trovo che tutto questo debba trovare spazio di confronto pubblico, soprattutto nel momento in cui si sviluppa un dibattito relativamente alla riorganizzazione dei servizi di infanzia comunali. Perché se così non fosse, sarebbe una discussione mutilata, ovvero una discussione che non mette al centro bambini e famiglie, quasi che questi siano un elemento secondario o aggirabile del tema.
Se non partiamo da queste esigenze rischiamo di perdere di vista il punto centrale, il benessere del bimbo e delle famiglie che lo affidano ai servizi.
Non serve andare lontano per trovare un esempio innovativo, di grande spessore pedagogico, organizzativo e culturale a cui fare riferimento. Basta andare al “Belnido”, il nido d’infanzia interaziendale costruito dall’Ausl di Rimini e situato all’interno dell’ospedale “Infermi” di Rimini.
Una struttura nata per occupare un massimo di 84 bambini, dai 10 ai 36 mesi con spazi e logistiche più che all’avanguardia, sia dal punto di vista strutturale sia dal punto di vista dell’offerta didattica, che in pochi anni si è posta come vera eccellenza a livello locale e studio a livello regionale e nazionale. In questo caso si tratta di un asilo di tipo “aziendale”, dedicato ai figli e ai nipoti dei lavoratori dell'Ausl Romagna, con una flessibilità oraria legata il più possibile ai diversi turni lavorativi, e la possibilità di ampliarla alla giornata di sabato o ad alcuni festivi. Normalmente copre un arco orario importante, che va circa dalle 7 del mattino alle 19 di sera. Nessun “totem” da abbattere ma, più semplicemente, risposte pratiche a bisogni reali.
La soddisfazione degli utenti verso questa struttura è d'altronde tra le più alte. Questo significa che differenziare e ampliare le fasce orarie trova rispondenza in esigenze reali delle famiglie che, anzi, chiedono sempre più l'ampliamento di questi servizi. In questo modello virtuoso lavorano insieme Comune e Azienda Sanitaria, Asp Valloni e cooperative sociali. Una collaborazione con professionisti che offrono questi servizi di qualità, in orari diversi da quelli tradizionali, rappresenta senza dubbio, nei fatti, un valore aggiunto che a parer mio va inserito gradualmente ma in maniera convinta nella riorganizzazione in atto anche per quanto riguarda le strutture comunali. Una possibilità pedagogica in più messa a disposizione di chi, liberamente, ne vorrà usufruire.
In questi giorni ho letto e sentito molte frasi improprie, alcune perfino offensive nei confronti delle famiglie che lavorano e chiedono servizi moderni e in sintonia con i mutati ritmi di vita. Non si tratta, come ha detto qualcuno con una buona dose di arroganza e superficialità, di ‘parcheggiare i bambini all'asilo’ o ‘appaltarli a qualcuno’; ma semplicemente permettere a più famiglie possibili di avere orari in grado di rispondere alle loro esigenze occupazionali, sviluppando anche in maniera concreto il concetto di “pari opportunità” per le madri lavoratrici attraverso servizi che garantiscono qualità anche al di là del classico orario ‘8-16 e posi si chiude’.
Un paio di giorni fa ho letto la lettera di un genitore riminese. “Non ci sto a sentirmi un genitore peggiore di altri perché non ho la possibilità di gestire l’uscita dei miei bambini alle ore 16.00“ scrive questo genitore, offeso da chi, per contrastare la possibilità di orari più flessibili, accusa che i figli ‘si fanno per viverli e non per appaltarli alle cooperative’. Continua questo genitore: “sono papà di due bambini che non possono frequentare le scuole d’infanzia pubblica perché io, mia moglie e la nostra piccola rete familiare, causa necessità di lavoro non abbiamo la possibilità di andarli a prendere all’uscita prevista per le 16. Pur avendo avuto posizioni utili in graduatoria, abbiamo dovuto rinunciare alle strutture pubbliche per quelle private, che davano risposte più adeguate alle nostre esigenze“. Sono veramente offeso e mortificato dalle dichiarazioni. Capisco le istanze e le rivendicazioni del personale precario, che vede sfumare la possibilità di un lavoro nel settore pubblico, che ne fa le proprie rimostranze da un punto di vista occupazionale e sindacale. Desidererei, però, che il piano della discussione e del confronto rimanesse scevro da interessi terzi e diversi rispetto ad avanzare una proposta di miglioramento del servizio offerto dai nidi/materne rispetto ad oggi”.
Trovo questo un argomento di discussione non solo interessante ma centrale allorchè si discuta di qualsivoglia riorganizzazione. Al di là delle ragioni, al di fuori di qualsiasi strumentalità, vogliamo parlare ANCHE delle famiglie riminesi e delle loro esigenze?
Mattia Morolli
16 novembre
A spasso col papa | Cariparma per Carim | Rocce da nababbi
Cattolici e referendum costituzionale, Sacchini ci scrive
Il nostro articolo su “Referendum costituzionale, cattolici e posizioni strumentali” ha sollevato un vespaio di polemiche, anche oltre i confini riminesi. Ben vengano se aiutano a fare chiarezza e a stimolare un dibattito costruttivo. L’amico Bruno Sacchini, le cui posizioni, insieme ad altre, erano prese di mira nell’articolo, ci ha inviato alcune repliche che volentieri pubblichiamo anche se non condividiamo.
Siccome non voglio farla lunga, oltre a ringraziare di cuore l’amico Valero Lessi per aver replicato al mio pezzo sulla “Scelta religiosa” in campo cattolico (perché non solo la diversità di idee, ma anche il dialogo e il confronto su idee contrapposte è una ricchezza), vorrei limitarmi a riportare alcuni passaggi del bell’articolo col contrappunto di alcune mie osservazioni. Ovviamente critiche, ma non ostili, anzi.
bR Sul tema del referendum costituzionale del 4 dicembre è legittimo per chiunque avere opinioni diverse, per il sì o per il no. Quanto detto è una tautologia, ma si rende necessaria perché in taluni settori dell’opinione pubblica, specialmente in campo cattolico, vengono sollevati argomenti che portano a sostenere che la fedeltà a determinati principi e valori implichi un sicuro “no” al quesito referendario.
Sacchini Ma io ho sempre detto il contrario, cioè che sono proprio i valori a portarci fuori strada. Nella misura in cui la retorica dei “valori” (magari non negoziabili) si muove all’interno d’un moralismo soffocante e liberticida, inaugurato a suo tempo da quel vero killer della politica italiana a nome Enrico Berlinguer. Ricordate la menata della “questione morale”, usata come clava contro i nemici e divenuta strumento di distruzione giustizialista della politica nel nostro paese?
Eppure si sostiene che la legge ha cancellato il principio di sussidiarietà.
Questo io non l’ho mai detto.
Eppure un giurista colto e preparato come Alfredo Mantovano, pure lui intervenuto nei mesi scorsi a Rimini, sostiene, trovando molti seguaci, che la riforma va bocciata perché favorisce il “processo di disintermediazione”, cioè riduce il ruolo dei corpi intermedi.
Resta che l’indebolimento del parlamento rispetto alla volontà di potenza d’un governo che, a quel punto, potrà decidere “con rapidità ed efficienza”, cioè senza contrappesi, ciò che vuole, porta in quella direzione.
Gli unici fatti che il giurista Mantovano ha citato nel corso del suo intervento a Rimini sono alcune prassi di governo attuate dal premier Renzi.
Ma è stato Renzi a personalizzare l’esito del Referendum, fino a farlo diventare un voto sulle sue prassi di governo. Cosa che, una volta fatta, capo ha. Nel senso che gli elettori non la dimenticheranno più: ma di chi è la colpa se non dello stesso Renzi?
L’altro argomento che viene messo in campo, anche in questo caso nell’ambito del mondo cattolico, è che chi pensa di votare “sì” al referendum è in qualche modo succube del potere e della mentalità dominante, che qualcuno, con qualche triplo salto mortale dialettico, definisce addirittura come gramsciana e comunista. In questo caso il pensiero, che si pretende intelligente e arguto, denuncia una totale incomprensione della realtà. Continuare a leggere la situazione sociale e culturale di oggi con categorie che ormai appartengono solo ai libri di storia non aiuta a capire il presente.
Personalmente continuo a pensare chela manipolazione del pensiero unico consiste appunto nell’indurci a credere che “i comunisti non esistono più”. Il che è vero, ma solo perché (mi permetto di aggiungere sulla scia di Chesterton) lo siamo già diventati tutti senza neanche accorgercene: è il trionfo dell’egemonismo Gramsciano senza più il partito di riferimento, come peraltro sosteneva già a suo tempo Augusto Del Noce.
Se c’è una mentalità dominante oggi non è forse quella, in vario modo espressa, dell’antipolitica e del populismo?
Ma la mentalità antisistema si fonda proprio sulla “dialettica” intesa come filosofia implicante la rottamazione violenta, cioè la distruzione, dell’avversario tipica del pensiero marxista. A ulteriore dimostrazione che la logica vetero-comunista la fa oggi da padrona senza che gli stessi “populisti” se ne rendano conto. La cui colpa infatti non è di essere tali, bensì ignoranti come le capre, in quanto servi sciocchi della mentalità dominante senza rendersene conto.
Esiste il concreto rischio che il 4 dicembre tutti coloro che oggi entusiasticamente si esprimono per il “no” facciano da battistrada per una ravvicinata affermazione del populismo grillino o salviniano.
E con questo? Non è forse questa la logica della democrazia, di vincere sempre anche quando perde? Purché “democraticamente” (cioè attraverso libere elezioni, espressione della volontà popolare) foss’anche a favore d’un populismo alla Brexit o alla Trump. Perché se abbiamo paura della democrazia siamo fottuti in partenza. Cosa d’altra parte dimostrata dal fatto che, unici in Europa, noi Italiani sono quattro anni che ci impediscono di votare. Mediante l’imposizione di ben tre presidenti del consiglio non eletti (Monti, Letta, Renzi: neanche la Grecia!) bensì designati. Designati da chi? Dai poteri forti internazionali, politici e finanziari, i quali, grazie all’intermediazione del vetero-comunista Giorgio Napolitano, hanno fatto dell’Italia un protettorato, anzi una satrapia in cui la volontà popolare conta come il due di coppe. In un meccanismo di controllo esterno sancito da un progetto di Riforma in cui viene abolito ogni contrappeso del parlamento sull’operato del governo. Operato che sarà certo, a Riforma approvata, più rapido ed efficiente, ma a favore di chi? Questa semmai è la domanda da porsi.
16 novembre
Maria Pia uccisa | Asili, si studia il ricorso | Pacchetto agevolazioni per il Parco del mare