Il Meeting, i muri da abbattere e un copyright di La Pira
Mediterraneo: costruire ponti abbattere muri. Il titolo di questo incontro di oggi al Meeting (ore 15, Salone B3) è di quelli che fanno storcere il naso di disgusto a quanti ritengono che in questo modo il raduno ciellino abbandoni la sua antica vocazione identitaria e si accodi al politically correct, facendo suoi i contenuti e lo spirito del mainstream. Questa reazione si accompagna all’analoga irritazione per la parola dialogo, che, a prescindere dall’ambiguità con cui viene talvolta usata, è vista sempre come un vocabolo sospetto, nemico di una fiera proclamazione pubblica della propria identità culturale.
Dietro a queste reazioni c’è la convinzione che lo slogan “costruire ponti abbattere muri” sia patrimonio originario ed esclusivo della mentalità progressista oggi molto diffusa, che il suo uso denunci inequivocabilmente le proprie simpatie politiche per la sinistra, e che tutto ciò porti ad una resa senza condizioni del cattolicesimo alla mentalità e al potere dominante. Non è ben chiaro – restando sempre a livello di slogan - quale sia l’alternativa che i bravi cattolici dovrebbero praticare per salvaguardare la propria identità (forse costruire muri? o abbattere ponti?), fatto è che non appena si accenna al tema, scatta una idiosincrasia che non riguarda solo il metodo del dialogo ma coinvolge, di riflesso, anche taluni accenti del magistero di Francesco che a più riprese ha appunto invitato ad abbattere i muri e a costruire ponti.
In realtà il copyright di questa espressione non appartiene alla sinistra o alla mentalità progressista attuale. Nemmeno è un’esclusiva di papa Francesco. Il primo ad usarla è stato un personaggio che appartiene alla migliore storia del cattolicesimo italiano del Novecento, il “sindaco santo” di Firenze, Giorgio La Pira. A meno che, accodandosi alle malevole etichette che i giornali di destra degli anni Cinquanta gli avevano affibbiato (comunistello di sagrestia, pesciolino rosso nell’acquasantiera), non si voglia associare La Pira alla posizione sbrigativamente detta cattocomunista. È però difficile dare del cattocomunista a chi in piena guerra fredda invitava i gerarchi dell’Unione Sovietica a liberarsi del cadavere dell’ateismo di Stato, una zavorra per lo sviluppo dei popoli. O che fondava la sua teologia e teleologia della storia sulle rivelazioni di Fatima e sulla promessa della sconfitta finale del comunismo e della conversione della Russia. O che con Pio XII si vantava di aver inflitto ai comunisti fiorentini una clamorosa sconfitta.
Il 27 febbraio 1970 Giorgio La Pira, mentre sta leggendo un volume sui rapporti fra Chiesa e Stato nella storia, prende carta e penna e scrive una delle tante lettere che ha inviato all’amico Paolo VI. Il contenuto è quello topico della visione lapiriana della storia: viviamo un cambiamento d’epoca («età nuovissima, atomica, spaziale, demografica, millenaria, scientifica») che spinge inevitabilmente verso l’unificazione del mondo. E questo mondo va unificato «facendo ovunque ponti ed abbattendo ovunque muri». C’è un corollario che la Pira aggiunge e che spiega perché lui ne parli con il papa: «questa unificazione non è possibile -quasi non ha senso- se non passa (in certo modo) da Pietro». Anche perché nell’attuale cambiamento d’epoca, rimbalza dalla Chiesa ai popoli la domanda di Gesù: «E voi chi dite che io sia?». Ciò che propone è che la Chiesa torni ad essere il centro di gravità delle nazioni, perché essa ha una propria soggettività politica e giuridica. Abituato a parlare con libertà e franchezza ai pontefici, la Pira spiega a Paolo VI che «La “fiacchezza” della polemica occidentale (postconciliare, come si dice) sta nel mettere “in disparte” (per così dire) questa soggettività giuridica e politica della Chiesa». Usando una metafora, possiamo dire che egli propone che di questo cantiere per abbattere muri e costruire ponti e per unificare il mondo la Chiesa deve assumere la direzione lavori. Con spirito profetico, La Pira intuisce che il destino della Chiesa si giocherà sempre più nell’est (quando scrive il muro di Berlino è ancora in piedi) e nel sud del mondo, dove in quegli anni si affacciavano e si agitavano i popoli usciti dal processo di decolonizzazione. E conclude che la Chiesa «solo “attraverso i barbari” potrà ricomporre (per così dire) “l'impero romano in decadenza” e potrà ricomporre (per così dire) “il nuovo impero”, “l'unità nuova dei popoli”», che riporterà in evidenza la soggettività storica, giuridica e politica della Chiesa.
La lunga digressione è stata necessaria per capire come e in quale contesto sia nata l’espressione “abbattere muri, costruire ponti” . È difficile associarla al cattocomunismo, se proprio le si deve dare un’etichetta, la si può magari chiamare neoguelfa, e quindi non ha proprio nulla di progressista. Ciò non significa che a volte non sia usata in modo orrendamente superficiale, ma di tutto va trattenuto il valore ed eliminate le scorie.
La riflessione di La Pira sui movimenti storici è molto più ampia e articolata di quella brevemente tratteggiata in questa lettera a Paolo VI (e non è scopo di questo articolo approfondirla). Notiamo solo che giustamente il Meeting ha associato il tema dei muri e dei ponti a quello del Mediterraneo. E qui siamo nel cuore dell’impegno del sindaco di Firenze per la pace e l’unità fra i popoli. Forse non caso all’incontro, insieme a Nassir Abdulaziz Al-Nasser, Alto Rappresentante dell’ONU per l’Alleanza delle Civiltà, e al sindaco di Tunisi, Saifallah Lasram, è stato invitato anche il suo successore a Palazzo Vecchio, Dario Nardella. Fra gli anni Cinquanta e Sessanta, Firenze ospitò, organizzati da La Pira, i Colloqui per la pace e la civiltà cristiana e i Colloqui mediterranei, ai quali erano invitati i rappresentanti di tutti i popoli, anche quelli, allora come oggi, in guerra fra loro. Per la Pira, il Mediterraneo era una sorta di Lago di Tiberiade sul quale si affacciano i popoli che appartengono alla triplice famiglia di Abramo, e cioè ebrei, cristiani e musulmani. I popoli che abitano sulle sponde di questo “lago”, proprio perché tutti discendono dall’unico patriarca Abramo, sono destinati a superare i contrasti e a vivere in pace. È la comune discendenza da Abramo a chiamare i popoli del mediterraneo all’unità, e non, come è di moda dire oggi, perché tutti appartengono alle “religioni del libro”.
“Abbattere muri, costruire ponti”, non è dunque uno slogan pericoloso ma un’indicazione di metodo che ha avuto nella storia illustri e autorevoli pionieri.
Valerio Lessi
Francesco al Meeting: rivivere l'esperienza di Zaccheo
Dopo il messaggio del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ecco l’annunciato messaggio di papa Francesco. Quattro pagine a firma del segretario di stato vaticano cardinale Pietro Parolin (che sarà al Meeting nella giornata conclusiva di sabato 26 agosto) che si configurano come una lettura del titolo scelto per l’edizione di quest’anno, la frase di Goethe “Quello che tu erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo, per possederlo”. Il messaggio è stato letto dalla presidente della Fondazione Meeting Emilia Guarnieri prima della santa Messa delle 10.45 celebrata dal vescovo di Rimini Francesco Lambiasi nell’Auditorium della Fiera di Rimini e trasmessa in diretta su RaiUno.
Il testo sottolinea che la frase di Goethe «è un invito a riappropriarci delle nostre origini dal di dentro di una storia personale. Per troppo tempo si è pensato che l’eredità dei nostri padri sarebbe rimasta con noi come un tesoro che bastava custodire per mantenerne accesa la fiamma. Non è stato così: quel fuoco che ardeva nel petto di coloro che ci hanno preceduto si è via via affievolito».
La nostra società, scrive papa Francesco, caratterizzata da «poca memoria», ha il limite «di liquidare come un fardello inutile e pesante ciò che ci ha preceduto». Ma non si può «edificare il futuro senza prendere posizione riguardo alla storia che ha generato il nostro presente». Nessuna nostalgia del passato, quindi. «Come cristiani non coltiviamo alcun ripiegamento nostalgico su un passato che non c’è più. Guardiamo piuttosto in avanti fiduciosi». Non si gioca in difesa: «Non abbiamo spazi da difendere perché l’amore di Cristo non conosce frontiere invalicabili. Viviamo in un tempo favorevole per una Chiesa in uscita, ma una Chiesa ricca di memoria, tutta sospinta dal vento dello Spirito ad andare all’incontro con l’uomo che cerca una ragione per vivere».
È vero, «c’è una malattia che può colpire i battezzati e che il Santo Padre chiama “alzheimer spirituale” (…) se diventiamo “smemorati” del nostro incontro con il Signore, non siamo più sicuri di niente; allora ci assale la paura che blocca ogni nostro movimento». Come quindi evitare questo “alzheimer spirituale”? «C’è una sola strada», è la risposta di Francesco: «attualizzare gli inizi, il “primo Amore”, che non è un discorso o un pensiero astratto, ma una Persona. La memoria grata di questo inizio assicura lo slancio necessario per affrontare le sfide sempre nuove che esigono risposte altrettanto nuove, rimanendo sempre aperti alle sorprese dello Spirito che soffia dove vuole».
Un “nuovo inizio che a noi arriva «attraverso la vita della Chiesa, attraverso una moltitudine di testimoni che da duemila anni rinnovano l’annuncio dell’avvenimento del Dio-con-noi». Per questo bisogna «tornare lì, a quel punto incandescente in cui la Grazia di Dio mi ha toccato all’inizio del cammino. [...], quando Gesù è passato sulla mia strada, mi ha guardato con misericordia, mi ha chiesto di seguirlo; [...] recuperare la memoria di quel momento in cui i suoi occhi si sono incrociati con i miei».
Insomma anche oggi ognuno di noi può rivivere l’esperienza capitata a Zaccheo, così descritta da sant’Agostino: «Fu guardato e allora vide». «Ecco ciò che abbiamo ereditato» annota Francesco, «il tesoro prezioso che dobbiamo riscoprire ogni giorno, se vogliamo che sia nostro». E riprende una metafora molto cara a don Giussani, quella dello zaino, che all’inizio si porta sulle spalle e ci viene riempito dai genitori e dagli educatori, ma a un certo punto occorre «prendere e metterselo davanti agli occhi», per scoprire cosa c’è dentro, in modo che «diventi problema quello che gli altri ci hanno detto, paragonando quel che vede dentro, con i desideri del proprio cuore». «Solo riguadagnando il vero, il bello e il buono che i nostri padri ci hanno consegnato, potremo vivere come un’opportunità il cambiamento d’epoca in cui siamo immersi, come occasione per comunicare in modo convincente agli uomini la gioia del Vangelo».
Il Meeting, Rimini e le eredità da riguadagnare
«Quello che tu erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo, per possederlo». La frase di Goethe che costituisce il titolo del Meeting 2017 (che apre i battenti domenica 20 agosto a Rimini) introduce domande e riflessioni che hanno immediatamente a che fare con la concreta vita quotidiana di ciascuno di noi. Ciascuno di noi è figlio, ed ha ricevuto in eredità qualcosa (non solo e non tanto in senso materiale), e ciascuno di noi è padre, preoccupato di un lascito solido e duraturo per i propri figli. Ciascuno di noi è figlio di una tradizione culturale ed ha dentro di sé la domanda di come trasformare questo tesoro in una energia costruttiva del presente e del futuro.
È una riflessione che riguarda ogni aspetto e dimensione dell’esistenza. Presentando il Meeting 2017 al Teatro Galli (un pezzo della storia della città riguadagnato al presente), la presidente Emilia Guarnieri ha giustamente osservato che anche «Rimini è una grande eredità che i nostri padri ci hanno lasciato, di arte, di storia, di laboriosità, di ospitalità, di intraprendenza, di apertura, di capacità di sacrificio». La storia di Rimini, che ha saputo rinascere dalle macerie della guerra e costruire l’industria dell’ospitalità che la caratterizza, non può essere ridotta ad una narrazione retorica di circostanza: quella eredità, quella creatività, quell’intraprendenza, il lascito delle generazioni precedenti, vanno riguadagnate se si vuole che siano determinanti anche per il futuro. Lo stesso Meeting, dopo circa quaranta edizioni, è per le giovani generazioni che lo frequentano e contribuiscono a costruirlo una eredità da riguadagnare.
A ben guardare la caricatura dell’eredità ricevuta (in senso generale, per ogni aspetto della vita economica, sociale, culturale e politica) è la rendita, l’eredità ridotta a moneta spicciola da spendere giorno dopo giorno, fino all’esaurimento e al fallimento. Oppure, un’altra caricatura è l’eredità ridotta a ripetizione automatica e schematica di ciò che ha fatto la grandezza dei padri, senza lo sforzo di imparare dalla loro lezione il metodo per affrontare le sfide di oggi. Da questo punto di vista è utile l’indicazione arrivata da padre Antonio Spadaro, direttore de La Civiltà Cattolica, nella presentazione a Roma del Meeting 2017. «Il modo per riguadagnare l’eredità ricevuta dei padri è la libertà», ha osservato, «Niente è scontato nel passaggio tra le generazioni. Ciò che ricevo è mio se attraversa la mia libertà. E dove c’è libertà, c’è inquietudine. Nulla è mio se non attraversa la mia personale inquietudine. Se questo non avviene la mia vita diventa una “bottega di restauro” o un “laboratorio di utopie”». Ciò che mi appartiene, ha spiegato ancora il direttore de La Civiltà Cattolica, «mi appartiene perché si è avvicinato alla mia inquietudine e l’ha attraversata impastandosi con me e lanciandomi verso il desiderio di un futuro da costruire».
Padre Spadaro ha approfondito il tema rifacendosi ad una riflessione di papa Bergoglio. «Sorprendentemente per Francesco i padri, gli “anziani” sono coloro che sognano». E qui, per restare in casa nostra, viene il mente il “sogno” su cui Vittorio Tadei ha basato la sua azienda. «I giovani – ha proseguito Spadaro - invece sono coloro che hanno visioni. Per Bergoglio, in questa catena di sogni e visioni, se i padri sono incapaci di narrare i loro sogni non permettono alle giovani generazioni di avere visioni, di fare progetti, dal momento che il futuro genera insicurezza, sfiducia, paura. Questo ci serve oggi: riappropriarci della “pace dell’inquietudine”, quella che non ci inabissa nel vortice delle paure, ma ci fa respirare la statura della nostra umanità».
Come viene declinato questa tema dell’eredità da riguadagnare nello svolgimento del programma del Meeting? L’appuntamento centrale è l’incontro dedicato appunto al tema (martedì 22, ore 17) che sarà svolto da monsignor Pierbattista Pizzaballa, amministratore apostolico del Patriarcato Latino di Gerusalemme (dopo essere stato per anni Custode francescano di Terra Santa). Pizzaballa lasciò il segno tre anni fa, all’inizio della tragedia della Siria, con un intervento con cui invitava a osservare con «uno sguardo religioso, redento» ciò che avviene in Medio Oriente. L’incontro di lunedì 22 merita pertanto di essere seguito con attenzione.
Un filo rosso che lega molti incontri è il tema del dialogo. Giovedì 24 (ore 17) su “Un dialogo da riguadagnare” si confronteranno il rabbino americano Davide Rosen, Mohammad Sammak, Segretario Generale del Comitato per il Dialogo islamo-cristiano in Libano, e il nunzio apostolico Silvano Maria Tomasi, membro del Dicastero Servizio per lo Sviluppo Umano Integrale.
Da segnare in agenda anche l’incontro (venerdì 25, ore 17) su “Tra Nichilismo e Jhadismo. Come ricostruire la civiltà nello spazio pubblico”, cui parteciperà l’intellettuale francese Olivier Roy.
Su “L’abbraccio della Chiesa all’uomo contemporaneo” interverrà nella giornata di chiusura (sabato 26, ore 12), il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato di papa Francesco.
Anche l’attualità politica può essere letta a partire dal tema. Ecco allora l’incontro con il premier Paolo Gentiloni (L’eredità e il futuro dell’Italia, domenica 20, ore 15), ed ecco l’incontro sull’Europa da riguadagnare con Antonio Tajiani ed Enrico Letta (lunedì 21, ore 17), quello su “Quali eredità politiche ci consentono di portare avanti l’Italia?”(martedì 22, ore 19), con presidenti di regione Bonacchini, Maroni e Toti. .
Sorpresa: la Romagna crede ancora al mito dell'Urss!
Ma allora la Romagna rossa esiste e resiste ancora! Il mito della Rivoluzione del 1917 è ancora saldo nel cuore dei romagnoli. La bandiera rossa probabilmente non trionferà più, ma quella volta che ci è riuscita, rappresenta ancora per molti una soddisfazione e un’emozione a cui non si può rinunciare. Ieri sera, nel sempre stupendo scenario di Villa Torlonia a San Mauro Pascoli, il tribunale popolare (il nome fa molto sovietismo d’antan) chiamato a giudicare, cento anni dopo, la rivoluzione che ha portato i comunisti al potere in Russia e fornito l’abbrivio per la nascita dell’Unione Sovietica, ha decretato l’assoluzione. E lo ha fatto a stragrande maggioranza, senza ombra di incertezze: solo in 195 hanno votato per la condanna di Lenin e compagni, mentre in 420 si sono espressi a favore. Anche il presidente del tribunale, Gianfranco Miro Gori, ha strabuzzato gli occhi quando gli hanno portato il verdetto; ha finto sorpresa e ha malcelato la soddisfazione di aver evocato e risvegliato, con il suo “giocattolo” del processo, queste forze assopite nel cuore dei romagnoli che, dopo quasi trent’anni dalla caduta del Muro, hanno dimostrato di non aver dimenticato il mito del Paese dove aveva cominciato a splendere il sol dell’avvenir.
Delle due l’una: o nonostante tutto quel è accaduto, dopo le sconfitte della storia e lo svelamento dei menzogneri ed ideologici inganni con cui una nomenklatura feroce ha soggiogato interi popoli, il mito della fondazione dell’Unione Sovietica come evento di riscatto delle classi subalterne è ancora vivo, ed è distinto dal giudizio sulle conseguenze concrete di quell’evento, ovvero l’immane tragedia del “socialismo reale”, oppure il pubblico convenuto a Villa Torlonia nella notte di San Lorenzo si è lasciato convincere dalle arringhe della difesa che aveva come campioni il giovane e televisivo filosofo Diego Fusaro e una istituzione della cultura di sinistra quale l’illustre filologo classico Luciano Canfora.
La stima per l’intelligenza e le capacità critiche del pubblico ci vanno propendere per la prima ipotesi, ma il dubbio rimane. D’altra parte, come poteva esserci un verdetto diverso quando a confrontarsi sulla Rivoluzione non sono stati chiamati esponenti di posizioni storiografiche e culturali contrapposte, ma, ci sia permessa la semplificazione, comunisti felici ed ex comunisti pentiti? E così Canfora, prendendo la parola dopo lo storico Maurizio Ridolfi, il quale, pensando di dire qualcosa di anticomunista aveva insistito nel sostenere che le istanze di egualitarismo e giustizia sociale erano precedenti al 1917 e che non sono un’esclusiva storica di Lenin e compagni, ha avuto buon gioco nel replicare che era perfettamente d’accordo e ne ha tratto spunto per la sua apologia della rivoluzione.
La serata è partita con Marcello Flores, nei panni dell’accusa e autore di un volume fresco di stampa proprio sul mito della rivoluzione sovietica. La sua tesi è che l’eclissi del socialismo, come possibilità di ribaltamento del sistema capitalista, sua cominciata proprio nel 1917 con la vittoria dei bolscevici. Il comunismo sovietico è diventato il modello vincente che ha vanificato ogni altro tentativo e reso sterili le altre correnti socialiste. Insomma, la nascita dell’Unione Sovietica è stata una sciagura per il mondo ma innanzitutto per la fortuna dell’idea socialista.
Sulla stessa traccia si è mosso l’altro accusatore, Maurizio Ridolfi, che, tra gli altri argomenti, ha evocato un bambino di undici anni, lui stesso, allevato al mito del comunismo e dell’Unione Sovietica da un zio, sgomento di fronte ai carri armati che nel 1968 schiacciano la primavera di Praga.
Ma la star mediatica della serata è stato Diego Fusaro, che si autodefinisce “Allievo indipendente di Hegel e Marx. Al di là della destra e della sinistra. Anticapitalista in lotta per l'emancipazione umana”. Il filosofo, ospite fisso della trasmissioni di Gianluigi Paragone su La7, ha offerto un saggio del suo eloquio forbito e ricercato, ricco di paroloni ad effetto (che ne dite della “forza catecontica”?) ma ossessivamente ruotante intorno ad un unico concetto: con il crollo dell’Unione Sovietica viviamo nel peggiore dei mondi possibili, dominati dal capitalismo assoluto, che chiama globalizzazione la sua vocazione imperialista e costringe tutti ad avere un unico pensiero, a ritenere che non ci sia altro mondo possibile che quello del totalitarismo liberale. Il suo, più che una difesa, è stato un elogio della Rivoluzione sovietica che, in più punti, quando le frasi ad effetto avevano qualche comprensibile risvolto populista, è riuscito a strappare qualche applauso. La rivoluzione è da elogiare perché è stato il primo imperituro tentativo di riscatto delle classi subalterne, perché ha liberato l’Europa dai nazifascismi (altro che americani!), perché ha costituito un faro per tutti i popoli in cerca di liberazione, perché il socialismo reale è alle origini del welfare degli stati occidentali, perché la sua forza catecontica (eccola!) ha tenuto a freno il dominio del capitalismo.
Si poteva legittimamente sperare che da un uomo della levatura di Canfora potesse arrivare una documentata e argomentata difesa della rivoluzione, ma il professore è scivolato sull’anedottica, offrendo infine agli ascoltatori una perla come l’elogio delle costituzioni dell’Urss che per la prima volta affermavano i diritti dell’uomo. Aveva ragione Berlusconi – ha poi chiosato - a sostenere che la nostra, quella italiana del 1948, è una costituzione sovietica.
Il pubblico ha assolto, e che altro poteva fare? Il dibattito non ha per nulla risposta all’interessante domanda che Gori, nel presentare l’evento, aveva posto sul piatto: “La rivoluzione naufragò tradita dallo stalinismo o le premesse dittatoriali stavano già nella teoria e nella prassi leninista?”.
È sperabile che chi cerca ancora questa risposta la possa trovare nella mostra Russia 1917. Il sogno infranto di un “mondo mai visto”, visitabile in Fiera dal 20 agosto in occasione del Meeting.
Valerio Lessi
Pizzolante, il Pd e il "nuovo" centrosinistra
(Rimini) Il deputato di Area Popolare Sergio Pizzolante continua a movimentare la politica locale che altrimenti avrebbe un encefalogramma piatto. L’ultima uscita riguarda l’altalenante (da qualche mese) rapporto con il Pd. Se dopo la rottura sulla legge elettorale, il deputato (che con il Pd è alleato a Rimini e ha cercato di esserlo anche a Riccione) aveva avuto parole di fuoco contro Renzi, ora torna a tessere il filo di un rapporto organico. Lo spunto è offerto dalla probabile alleanza fra Pd e Ap alle elezioni siciliane, un evento che gli fa dire che “si profila in Sicilia e in Italia una nuova alleanza di centro sinistra”.
“Dopo mesi di confusione e asprezze inutili, -scrive sul proprio profilo Facebook - ritornano in campo ragionevolezza e buonsenso. L'accordo prossimo fra Ap e Pd può essere il punto di partenza per costruire in Italia l'argine verso i populismi di destra e di sinistra. Non è assolutamente sufficiente, ma è un gran primo passo”.
Pizzolante va ancora più in là ed afferma che “non basta solo una somma di sigle, forse bisogna proprio cambiare le sigle vecchie. Per tornare a progettare una proposta politica all'altezza dei tempi”. Che cosa abbia concretamente in mente non lo dice, non si capisce se questo cambiamento di sigle è una sua ipotesi o è emersa nelle trattative che si stanno conducendo per risolvere il rebus delle elezioni in Sicilia.
Certo è che il cambiamento di vento, che la messa in archivio degli “errori nostri e di Renzi che avevano messo in discussione tutto”, ridà fiato alla politica del deputato riccionese che fino a qualche settimana fa si trovava nella scomoda posizione di attaccare Renzi a Roma e continuare l’alleanza con Gnassi a Rimini. Su questa ipotesi, sperimentata a Rimini e a Riccione, di un ceto medio che trova nuova rappresentanza politica per fare argine ai populismi di destra e grillini, Pizzolante sta scommettendo il proprio presente e futuro politico. Lo si intuisce dalla vis polemica con cui su Facebook ha replicato a quanti gli hanno obiettato che un conto sono i voti a liste civiche con il nome del sindaco a caratteri cubitali, un conto sono i consensi politici che si riescono a drenare a livello nazionale.
Questo attivismo di Pizzolante, questo suo insistere sull’ipotesi politica che da più di un anno sta perseguendo, certo non piace ad una parte del Pd locale. Lo si è visto come il giornale online vicino a Maurizio Melucci ha dato notizia della sua ultima uscita. E non è difficile prevedere che il rapporto con Pizzolante possa diventare il punto discriminante nel congresso che in ottobre dovrà scegliere il nuovo segretario di federazione.
Il Trc slitta al 2020 ma intanto se ne anticipano gli effetti
Quando nel dicembre del 2015 l’allora direttore di Agenzia Mobilità, Ermete Dalprato, portò i giornalisti di Rimini in un tour per vedere con i propri occhi il tracciato ormai completo del Trc, disse che i lavori sarebbero terminati entro il 2016 e che nel 2017 si sarebbero fatte le prime prove del servizio. Tre mesi dopo, facendo fare lo stesso tour turistico ai consiglieri comunali, sempre l’ingegner Dalprato affermava che sì, entro il 2017, il servizio di trasporto più discusso e contestato della storia sarebbe entrato in funzione.
Le conferenze stampa passano, i tour turistici terminano, i direttori vanno in pensione, e i tempi del Trc comunque si allungano. Nella recente conferenza stampa indetta per “festeggiare” il finanziamento governativo di 10 milioni per l’acquisto degli automezzi, è stato detto che le prime prove si faranno nel 2018 e che i primi passeggeri saliranno a bordo nel 2019. Con un sindaco Gnassi che visibilmente spingeva per il 2018 per il varo definitivo dell’opera.
E se invece i tempi fossero ancora più lunghi? Il sospetto viene leggendo la relazione dell’ingegner Alberto Dellavalle, dirigente del settore infrastrutture e grande viabilità, che accompagna la determina con cui il Comune di Rimini affida ad una società di Perugia l’incarico di definire la nuova rete del trasporto pubblico locale una volta che sarà entrato in funzione il nuovo servizio del Trc.
È evidente che l’entrata in funzione del Trc va ad incidere sull’organizzazione del trasporto pubblico locale. Non solo perché l’attuale linea 11 che collega mediante filobus Rimini e Riccione sarà soppressa, ma anche perché il tracciato del nuovo filobus su corsia protetta si va ad intrecciare con altre linee esistenti.
Alla società Transport Planning Service, che dovrà fornire i propri elaborati entro sei mesi, è stato chiesto di disegnare due diversi scenari, uno a lungo termine, con il Trc funzionante, ed uno a medio termine, “in cui il servizio viene ottimizzato rispetto all’esistente Linea 11 Filovia, assumendo che il nuovo servizio non venga attivato tempestivamente ma che se ne vogliano comunque cogliere, anticipandoli, gli obiettivi di razionalizzazione della rete”. Si chiede insomma di predisporre un piano per anticipare le conseguenze del Trc sul trasporto pubblico locale anche se il nuovo servizio dovesse ritardare. Anzi, a meno che il dirigente non si sia esercitato, come si usa dire, in un’ipotesi di scuola, si dà quasi per scontato che il Trc entrerà in funzione in ritardo rispetto ai tempi previsti. L’ipotesi di breve periodo dovrebbe avere la durata di due / tre anni con Trc non ancora in esercizio e linea 11 perfettamente funzionante; l’ipotesi di medio-lungo periodo (5-10 anni) deve invece prevedere il TRC in esercizio e a regime. Ora, visto che la ditta deve consegnare i propri elaborati entro dicembre, se si aggiungono altri due/tre anni si arriva tranquillamente a 2020 avanzato.
La Teletransport Planning Service, per il costo di 18 mila euro, dopo una dettagliata analisi della domanda e dell’offerta dovrà riprogettare le seguenti linee: quelle che vengono direttamente sostituite dal Trc; che sono prevalentemente in sovrapposizione con il Trc; che sono parzialmente in sovrapposizione con il Trc ma che possono beneficiare di significative economie se modificate/integrate ad altre linee; che possono garantire, se ristrutturate, un discreto recupero di risorse a sostegno della nuova rete. Ovviamente tutto questo con una attenzione alle compatibilità economiche delle nuove linee che si vanno ad individuare.
Renzi-Gnassi: il destino di una strana coppia allo specchio
Cinque anni sono passati, e un rapido sguardo a ciò che è successo aiuta a capire il presente (e anche quanto siano diventati veloci i tempi della politica).
È il 20 settembre 2012 e, accompagnato dallo slogan Adesso, il camper di Matteo Renzi il rottamatore fa tappa a Rimini. Lui è ancora il sindaco di Firenze, Gnassi è da un anno sindaco di Rimini, e non è in piazza ad ascoltarlo. Gli unici renziani dell’epoca, i “sansepolcristi della prima ora, erano il giovane Mattia Morolli, oggi felicemente assessore, e Samuele Zerbini, guardato allora, e anche oggi, come uno stravagante corpo estraneo democristiano. Sì, come il suo leader toscano. Ad ascoltare il sindaco di Firenze nel 2012 non c’è nessuno della dirigenza del partito. Il segretario Emma Petitti si farà viva per un saluto d’ordinanza solo prima che il camper riprenda la sua strada. D’altra parte alle primarie del novembre successivo, Rimini regalerà a Bersani il 47% e a Renzi solo il 39%. Solo dopo la vittoria arriveranno tante conversioni al nuovo verbo di Rignano.
Oggi gran cerimoniere al bagno 46, dove Renzi ha celebrato il passaggio da Adesso a Avanti (il titolo del suo libro che è venuto a presentare) è il sindaco Andrea Gnassi, poi ci sono la Petitti (che in cinque anni ha fatto un passaggio in Parlamento, è approdata alla corte di Bonaccini, e con tutta la famiglia si è iscritta alla corrente antirenziana), il segretario Juri Magrini che sembra dire “ma io qui che ci sto fare, tanto pensa a tutto Gnassi”, il deputato Tiziano Arlotti in bermuda rossi e t-shirt blu, qualche sindaco dei pochi rimasti fedeli alla linea, qualche giovane di belle speranze e bell’aspetto, come Giorgia Bellucci, componente, scusate se è poco, della direzione nazionale. Tutto qui? Tutto qui, o quasi.
Almeno questa volta Matteo ha avuto il suo bel bagnetto di folla. Non appena arriva, è accolto da una delle inossidabili istituzioni della Riviera, Gabriele, il bagnino del 26, e da tanti che sgomitano al pari di lui per avere il mitico selfie con il fiorentino. C’era un’area più mesta cinque anni fa. Nel frattempo, Renzi ha fatto in tempo a diventare segretario del partito, a trascorrere pericolosamente tre anni a Palazzo Chigi, a perdere malamente il referendum costituzionale, a ridiventare capo del Pd sull’onda delle sempre mitiche primarie.
Anche il gran cerimoniere Gnassi (“Se l’Italia va avanti, Rimini è sempre in movimento”) ne ha vista di acqua passare sotto il Ponte di Tiberio. Nel 2012 stava ancora studiando come lasciare un segno: doveva ancora inventare il piano della balneazione, doveva ancora accorgersi del dialogo possibile fra la Rocca e il Teatro Galli, doveva scoprire l’irresistibile fascino dei motori culturali che mandano definitivamente in archivio quelli immobiliari di melucciana memoria. Ha studiato con profitto, e la città è diventata un cantiere. Tanto che non perdona la gaffe dell’improvvido Renzi: “Quando Gnassi comincerà a fare le cose che ha promesso…”. Il sindaco, seduto davanti, corregge: “Ho già cominciato!”. E Renzi cerca di salvare il salvabile: “Quando comincerà a raccontarvi quello che sta facendo…”. Non c’è purtroppo nessuno che abbia la prontezza di spirito di replicare. “Anche questo lo sta già facendo…”.
Matteo e Andrea, la strana coppia speculare, forse così simili in pregi e difetti che questa potrebbe essere la ragione per cui il sindaco di Rimini, tanto lodato e inondato di complimenti, non è mai riuscito ad entrare nel cerchio magico dove invece si è accomodato il sindaco di Pesaro. Matteo e Andrea non faticano a trovare estimatori della loro cocciutaggine e tenacia nel voler realizzare i propri progetti; l’ammirazione però lascia subito il passo ad amare considerazioni: però che carattere impossibile, che manie da uomo solo al comando…
Matteo ha capito l’antifona e usa il tour di presentazione del suo libro per tamponare l’obiezione. “Il mio carattere è un problema di mia moglie, qui si tratta di decidere se è possibile cambiare l’Italia”. Mutatis mutandis, è la stessa narrazione di Gnassi su Rimini.
L’ex presidente del Consiglio si è pure allenato a smussare il pessimo carattere; quando dal pubblico arrivano le provocazioni e le immancabili contestazioni, si prodiga per tenere buoni i fans e per replicare argomento su argomento, senza cedere alla tentazione di mandarli a quel paese. Cede invece alla tentazione di qualche battuta populista e di tessere l’elogio un po’ ruffiano dei riminesi capaci di accoglienza, creatività e tenacia imprenditoriale, “un modello per l’Italia”.
Il Renzi balneare sembra alla ricerca di una nuova narrazione di sé. Insiste nel dire che nel libro ci sono le emozioni e le esperienze di un uomo perché “noi politici non siamo robot senza sentimenti.” E saluta il pubblico con una frase ad effetto: “La cosa bella della politica sono i rapporti umani”.
Valerio Lessi
Fine dei vitalizi? No, vittoria di chi è contro il Parlamento
Riceviamo dall'on. Sergio Pizzolante e pubblichiamo:
"Il dibattito alla Camera sui vitalizi dei parlamentari si è risolto, come era prevedibile, in uno spot contro il Parlamento. E poiché il Parlamento è parte integrante della democrazia rappresentativa( che è a sua volta, l'unica democrazia possibile), possiamo dire che abbiamo assistito a prove tecniche di tirannia."
Inizia così l'editoriale di Angelo Panebianco sul Corriere della Sera di oggi 2 Agosto 2017.
Panebianco aggiunge che le forze parlamentari abdicano, e la democrazia si spezza, quando rincorrono i movimenti antiparlamentari sul loro terreno, la demagogia e il populismo. È quello che ha fatto( purtroppo, ripeto, purtroppo!) Renzi.
Nel mio intervento alla Camera ho detto più o meno le stesse cose. Oltre al sottoscritto, cose simili le hanno dette Ferdinando Adornato, Fabrizio Cicchitto e Massimo Parisi. Poco, troppo poco. E tutti ridicolizzati dalla stampa. Che come la storia insegna, non ci ha guadagnato molto con le tirannie. Ma questo è un film già visto. Dopo il 1911, legge sul Suffragio Universale, il popolo entrava in Parlamento e il Corriere della Sera di Albertini avvio una feroce campagna antiparlamentare. Lo stesso Albertini si accorse troppo tardi dell'errore. Sta succedendo ancora.
Panebianco auspica una reazione del Parlamento perché la democrazia o è rappresentativa o non è!
Perché, ovunque, la mitica democrazia diretta ha trovato forme di applicazione si è trasformata, appunto, in tirannia, in forma totalitaria o autoritaria.
Siamo stati solo in quattro a reagire.
Io ho detto che capivo i 5 stelle, sono governati da una associazione che si chiama Rousseau, il filosofo della democrazia diretta. Per loro è logico bombardare il Parlamento, il luogo della democrazia reale, quella rappresentativa, e invece non capivo il Pd. E la sua subalternità culturale verso i grillini.
Per i 5 stelle è normale difendere in Parlamento tutte le prerogative dei Magistrati, del potere giudiziario a svantaggio del potere legislativo!
Dire che ai magistrati non si possono bloccare gli stipendi, a differenza di quanto si è fatto per i dipendenti pubblici(pur essendo loro dipendenti pubblici) perché si lede la loro autonomia e indipendenza e affermare, in parallelo, che i Parlamentari devono essere trattati come tutti i dipendenti pubblici(pur essendo essi indipendenti per dettato costituzionale) ha una sua logica per una forza antiparlamentare. È una aberrazione quando lo dice Richetti!
Durante il mio intervento alla Camera, gli applausi più sostenuti mi sono arrivati dai 5stelle. Di Battista è venuto a congratularsi. Mi ha detto che il mio intervento era corretto, che la rincorsa del Pd sul terreno del populismo non avrebbe portato loro un voto in più, perché sul quel terreno sono in grado di fare sempre, più uno! Come sta succedendo in queste ore al Senato. Come ha detto Di Maio nel suo intervento alla Camera : " non ci basterà mai!"
Ho poi scoperto che,nei giorni successivi al dibattito alla Camera,sono diventato una specie di star nella rete dei 5 stelle.
Il mio intervento è stato esibito come un trofeo. Centinaia di migliaia di visualizzazioni e decine di migliaia di condivisioni. Era la prova che il "Piano Rousseau", avanzava.
Dove ho sbagliato?
Non ho sbagliato io.
Io ho detto che loro avevano raggiunto un risultato, l'auto dissolvimento del Parlamento. E ho aggiunto che stava avvenendo con l'aiuto decisivo del Pd.
Il dibattito sui vitalizi( che non ci sono più dal 2012), non era un dibattito sui vitalizi, ma sui valori della democrazia rappresentativa!
I 5 Stelle l'hanno capito, i parlamentari del Pd no!
O peggio, sono venuti in molti a stringermi la mano nel giardino della Camera. Ma hanno votato per la legge Richetti.
Peggio, molto peggio che non capire.
Ma sono tante le cose che le forze politiche non capiscono e che alimentano la cultura antiparlamentare e antidemocratica.
Lo dice sempre Panebianco.
Se la narrazione del circo mediatico giudiziario più potente del mondo,nato con tangentopoli, è quella che l'Italia sarebbe il Paese più corrotto del mondo, dato smentito dalle sentenze passate in giudicato,
non c'è salvezza!
Se chi fa politica è un ladro a prescindere, non c'è salvezza.
Perché così la politica la faranno solo i ladri veri.
Un Paese che ha una autorità anticorruzione che interviene su tutto non può salvarsi.
Se un Paese fa le leggi sul presupposto che chi le fa è corrotto, come gli enti pubblici che devono applicarle e le imprese che devono utilizzarle, non si può salvare.
È una riflessione che dovrebbero fare i politici, ma anche i giornalisti e i professori nelle scuole e nelle università!
La vedo dura.
Sergio Pizzolante
Turismo, secondo le statistiche giugno è stato splendido
Se le statistiche ufficiali hanno ragione, il mese di giugno è stato splendido. Gli albergatori che, dopo il boom del ponte di inizio mese, lamentavano vuoti, evidentemente devono ricredersi. Nella provincia il mese si chiude con un +10, 7% di arrivi e un +7,5% di presenze. Anche il mese di luglio, week end a parte, non sembra aver brillato, ma a questo punto conviene aspettare le statistiche ufficiali.
In giugno i risultati sono stati positivi ovunque, anche se cambiano di spessore da Comune a Comune. Bellaria Igea Marina chiude giugno con un aumento di presenze del 9,2%, Cattolica si attesta su un +5,6%, Misano Adriatico registra un +8,6%, Riccione ha l’incremento più limitato +2,3%, Rimini festeggia un aumento a due cifre +10,2%. Il capoluogo, che negli anni scorsi si distingueva per le performances peggiori, sembra aver ritrovato pienamente la funzione di leadership del turismo in Riviera.
Il nuovo assessore al turismo di Riccione, Stefano Caldari, si è affrettato a dare la spiegazione del risultato più magro portato a casa dalla Perla Verde. Tutta colpa del ribaltone che non ha permesso di organizzare gli eventi. “Nonostante il venir meno di eventi importanti dal punto di vista della visibilità e delle presenze - come ad esempio Riccione Green Park (lo scorso anno è terminato il 19 giugno) - e della totale assenza di programmazione e promozione, - scrive in una nota - per i noti motivi, la città ha registrato +2,3% nelle presenze (pari a 635.189 pernottamenti) e +6,8% negli arrivi, mantenendo un appeal confermato anche da dinamiche di prezzo che la posizionano nel gruppo di testa rispetto ai principali competitors nazionali”. Per la controprova bisognerà attendere il prossimo anno.
L’aumento di presenze nel mese di giugno è trascinato soprattutto dagli stranieri, che sono addirittura cresciuti del 25%, mentre l’incremento degli italiani è solo del 3,8. I tedeschi sono cresciuti del 75%, i russi del 24.7%, i polacchi del 34,7% e gli svizzeri del 9,2. Anche altre nazionalità estere hanno visto corposi incrementi, ma i dati assoluti sono molto meno consistenti. Fra gli italiani gli incrementi sono registrati dalle solite regioni di provenienza dei nostri turisti fedeli, Emilia Romagna, Lombardia, Veneto.
Con i dati del mese di giugno è possibile stilare un bilancio complessivo dei primi sei mesi dell’anno. Nel periodo gennaio-giugno gli arrivi sono cresciuti dell’11,2% e i pernottamenti dell’8,5%. Hanno contribuito all’ottima performance il mese di aprile (Pasqua) e il mese di giugno, mentre maggio si era chiuso con il segno negativo. Nei singoli Comuni (pernottamenti) i risultati sono stati questi: Bellaria +7,9%, Cattolica +4,5%, Misano +12,2%, Riccione +6%, Rimini + 10,6%. Nei primi sei mesi dell’anno le presenze straniere, su scala provinciale, hanno avuto questo andamento: Germania +18%, Polonia +25,7%, Regno Unito +8,6%, Francia +9,4%, Russia +35,9%, Svizzera +8%. Fra i mercati minori (in dati assoluti) si segnalano la Lituania +149,8%, la Svezia +19,65, la Moldavia +32,1%, la Finlandia +21,9%.
Marina Centro come Montmartre: pittori all'opera
Anche domani, 26 luglio dalle 21.30 alle 23.30, come ogni mercoledì sera da metà giugno e per tutto agosto, Marina Centro è come Montmartre.
Un gruppo di artisti offre la propria creatività per ritrarre gratuitamente gli ospiti di Marina Centro: per un ricordo d’autore della città delle vacanze. Roberto Brolli, parrucchiere-artista, ne è l’ideatore e organizzatore, lui stesso e dipinge insieme a Maria Grazia Federico e gli allievi della scuola d’arte di Umberto Folli: Enzo Berardi, Gianni Caselli, Marco Berlini, Liliana Rosa Quadrelli, Eliseo Calcinari Ansidei. A cui si sono aggiunti Irena Iris Willard responsabile Erasmus a Rimini (la cui madre ritrae a Montmartre) e Giorgio Franchini.
E’ un’iniziativa dell’Associazione Marina Centro-Rimini con la collaborazione delle attività economiche che operano tra P.le Fellini a P.le Kennedy. Arte, riminesità, volontariato, sono le parole chiave che, insieme a ciò che è rimasto dello stile di Embassy e Villa Tergeste, della raffinata Rimini Ostenda d’Italia negli anni ’30, il liberty, ispirano questo atelier a cielo aperto, che animae con gusto l’accoglienza serale nella passeggiata turistica della Marina. Molto l’interesse tra le tante persone che si fanno ritrarre ma anche che ammirano il lavoro degli artisti mentre disegnano. In viale Vespucci, itineranti, ogni mercoledì sera capita di incontrare un atelier a cielo aperto in un'atmosfera di grande piacevolezza accompagnata dalla colonna sonora live di qualità della street music di Paolo Sgallini.