Due giganti del mondo cattolico italiano del Novecento, Giorgio La Pira e Divo Barsotti. Il primo (1904-1977) fu docente universitario, deputato alla Costituente, sindaco di Firenze, instancabile costruttore di una trama di rapporti di pace fra i popoli; il secondo (1914-2006), sacerdote, fu un grande mistico, in rapporto con tutte le grandi personalità teologiche del secolo, autore di una sterminata bibliografia di opere spirituali. Fra i due nacque una profonda e solida amicizia che si mantenne intatta anche di fronte alle opinioni divergenti su questioni importanti. Ed è proprio sulle ragioni dello scontro fra Barsotti e La Pira che interessa qui indagare, perché a più di mezzo secolo di distanza le si ritrovano attuali in alcuni aspetti del dibattito ecclesiale e culturale odierno, dove il tema dell’originalità e della specificità del contributo cristiano alla storia del mondo tende ancora a dividere.

Occorre però prima ricordare come nacque il rapporto. Barsotti, giovane prete alla ricerca di una modalità di vivere il sacerdozio a lui più corrispondente, arrivò a Firenze su invito di Giorgio La Pira, con il quale aveva avuto uno scambio epistolare. Barsotti, sacerdote, si fa in qualche modo discepolo di un giovane laico. Ha raccontato le sue visite alla casa del professore: «Si stava insieme, anche in silenzio… Lui pregava, si faceva la barba, guardava, scartabellava dei libri e io stavo lì a guardarlo e a pensare. In questi anni ebbi davvero – come chiamarla – l’apparizione, in una pura trasparenza della sua anima, di un uomo di Dio. Conobbi e amai un santo, un grande contemplativo. La sua santità l’ho percepita quasi sperimentalmente. Gli sono stato molto vicino, ammiravo la sua fede, volevo imparare da lui a pregare».

Qualcosa però si ruppe quando La Pira decise di candidarsi sindaco. Il professore fiorentino, già al momento di presentarsi al giudizio degli elettori per la Costituente, si era convinto che la vocazione contemplativa alla quale pure si sentiva chiamato aveva bisogno, perché l’ora storica lo richiedeva, di completarsi nell’azione sociale e politica. Non è che Barsotti non condividesse questa scelta, non si sentiva in sintonia con alcuni accenti dell’amico. Racconta: «Mi ricordo che, anche in quel tempo, mi diceva: “Dobbiamo prepararci, perché ai cattolici sarà dato di guidare il mondo”. Io non credo troppo a queste prospettive, comunque lui diceva così». Per Barsotti la grandezza vera di La Pira sta «negli anni in cui l’ho conosciuto proteso unicamente verso Dio, senza la facile illusione di un cambiamento del mondo, senza la facile illusione che l’apporto, anche cristiano, possa risolvere i problemi che si pongono all’uomo. La soluzione unica è data dall’Unico Salvatore, cioè Cristo».

Il contrasto, si badi bene, non era fra un mistico e un uomo d’azione. Anche La Pira, come documentano i suoi biografi e i suoi scritti, era un mistico. La diversità stava nel fatto che il professore credeva che il tratto distintivo dei cristiani fosse quello di avere, in virtù della loro fede, la posizione più giusta e più efficace per leggere e risolvere i problemi del mondo. Quando, in polemica con il marxismo, diceva «I veri materialisti siamo noi», in qualche modo intendeva che i cristiani avessero la teoria e la giusta prassi per trasformare il mondo, e quindi anche di guidarlo. Barsotti diffidava di questa impostazione, gli sembrava «si volesse strumentalizzare il cristianesimo a dei successi mondani, strumentalizzare Dio per una efficacia nella storia del mondo».

Il sacerdote condivideva l’idea portante di La Pira sull’esigenza di annunciare profeticamente il ‘Regno futuro’, lavorando come cristiani nel mondo e nella storia. Ma gli sembrava che l’amico assolutizzasse questo impegno, riducendo la speranza cristiana a ciò che si può fare in questo mondo. Precisava che l’ottimismo cristiano è l’ottimismo della croce. La visione di La Pira era una visione fortemente ottimistica, nelle contraddizioni della sua epoca vedeva comunque un movimento sotterraneo verso la pace e l’unità del popoli, che i cristiani dovevano capire, assecondare e guidare. Gli uomini e la Chiesa erano chiamati a seguire il biblico sentiero di Isaia. Per Barsotti, invece, è solo «nella partecipazione alla Passione di Cristo che assicureremo e garantiremo la salvezza del mondo», e pertanto «è demagogico parlare di pace, parlare di unità di tutti i popoli, finché non si cerca prima di tutto di eliminare il peccato che oppone l’uomo a Dio».

Questa diversità di vedute portò a scontri anche molto forti, come avvenne ad una riunione del consiglio pastorale di Firenze. Barsotti tenne una meditazione, La Pira, evidentemente non d’accordo su alcuni punti, si lasciò andare ad una battuta, invitando a non dare ascolto a tutto ciò che aveva detto il sacerdote. Barsotti non accettò la correzione e lo attaccò pesantemente. Lo spunto dello scontro era l’interpretazione del discorso di Gesù nella sinagoga di Cafarnao («Lo spirito del Signore è su di me…»). Barsotti fu particolarmente duro: «Cosa aveva fatto Nostro Signore a Cafarnao? Nulla! Si rifiutò anche di fare i miracoli. La salvezza era la sua persona – mio caro professore – perché tutti i miracoli del Signore non sono nulla in confronto alla presenza stessa del Cristo, Figlio di Dio, se lei crede in Dio!».

Un dissenso radicale, che in altri ambiti avrebbe certamente portato alla rottura dell’amicizia. Ma la statura spirituale dei due uomini portò entrambi a superare queste incomprensioni e a mantenere saldi l’affetto e la stima reciproca. «Io vedo in La Pira – disse Barsotti ad un convegno commemorativo – soprattutto ed essenzialmente un’anima innamorata di Dio. Io vedo soprattutto ed ammiro in La Pira il fatto che egli abbia scelto Dio fin dalla sua giovinezza e, nonostante le sue delusioni e le sue amarezze, gli sia rimasto fedele. Io lo credo un autentico santo».

C’è anche un misterioso epilogo di questa solida amicizia fra La Pira e Barsotti. «Nell’attimo in cui egli moriva, io ero a San Sergio (la sede della comunità dei Figli di Dio, da lui fondata) – raccontò il sacerdote - e ho avvertito la sua presenza, una sua visita di amore. Non era un congedo; mi assicurava che al di là di ogni divergenza di pensiero egli rimaneva fratello e mi sentiva fratello». Il misterioso episodio ebbe anche un testimone oculare un membro della comunità Sergio Scandigli. Era presente quando Barsotti celebrava la Messa, e al momento dell’offertorio lo vide fermarsi e guardare verso la porta della sacrestia. Finita la Messa, arrivò una telefonata: la notizia che La Pira era morto. Scandigli corse a comunicarlo a Barsotti che si stava togliendo gli abiti liturgici. «Padre, La Pira è morto». La risposta: «Sì, lo so… è venuto a salutarmi mentre eravamo all’offertorio della Messa».

Al di là delle divergenze d’opinione, l’esempio di un’amicizia cristiana che varca i confini dell’eterno.

Valerio Lessi

«C’è sconfitta e sconfitta, questa ha le dimensioni della chiusura di un’epoca politica e di un cambiamento sostanziale dei parametri per il governo locale». Parla Sergio Gambini, ex senatore, a lungo dirigente del Pci-Pds-Ds, che ha sperimentato sulla propria pelle (sconfitta a Cattolica) il vento nuovo che spinge l’elettorato verso altri lidi.«Intendiamoci – afferma - la crisi della sinistra, delle sue forme organizzative, del suo insediamento sociale, dei suoi programmi è un fenomeno globale, particolarmente nel nostro continente, tuttavia ci sono realtà locali in tutti i paesi che rappresentano dei bastioni per la sinistra, perché in esse c’è una tradizione che si innova. Si sperimenta, si tentano nuove strade. Purtroppo, qui non è avvenuto nulla di tutto ciò e i bastioni vengono sbriciolati dai successi leghisti e pentastellati. Non a caso non si parla più del modello dell’Emilia rossa, semmai per guardare al futuro si invoca il modello Milano, dove la sinistra del governo locale ha tenuto bene».

Ci sono fattori anche locali che hanno inciso sulla sconfitta?

«Se guardiamo esclusivamente dal punto di vista delle realizzazioni delle giunte di sinistra difficilmente riusciamo a spiegare questo risultato. Ad esempio Rimini è una città amministrata bene, che negli ultimi anni ha compiuto un deciso passo in avanti, così è avvenuto a Pesaro. Non solo, tutto indica una ripresa economica solida, che grazie alla presenza di un tessuto di piccola impresa si è diffusa sul territorio.Le ragioni di questa grande fuga dell’elettorato vanno perciò cercate altrove. Non credo però che sia una questione di cattiva comunicazione o di eccessiva personalizzazione, che indubbiamente hanno influito, ma non bastano a spiegare».

Gnassi, sindaco di Rimini, dice: alle amministrative ci siamo noi sindaci, con le nostre facce, loro (Lega e 5 Stelle) sono solo un simbolo.

«La crescita senza un “effetto comunità” non produce consenso. Se sparisce quell’effetto, di fronte non abbiamo più il cittadino, ma l’individuo, che rimane solo senza legami e senza “protezione” né “legittimazione” comunitaria. A loro modo sia il M5S che la Lega hanno proposto ed inverato invece un’idea ed una forma di comunità, quella del web, con il suo linguaggio, le sue regole, la sua facile accessibilità, dall’altro lato quella identitaria con i suoi nemici e i suoi paladini. Se questa è, come credo, la ragione di fondo della sconfitta dubito che la soluzione sia in un partito dei sindaci, ritengo invece che occorra ricostruire un partito della comunità».

L’impressione è invece che anche il Pd sia diventato un partito di opinione, senza agganci con i mondi vitali delle persone e delle imprese.

«Per molti decenni c’è stata una grande corrispondenza tra l’orizzonte politico e programmatico della sinistra ed il presidio, le forme del radicamento locale di quel modello. Il welfare locale, il tessuto dell’associazionismo in tutti i campi da quello di categoria a quello sportivo, i sindacati, le cooperative di produzione e di consumo, presenti anche in campo assicurativo e finanziario, le aziende municipalizzate, le società partecipate. Dalla culla alla tomba, per decenni nell’Emilia Romagna rossa nessuno è mai stato solo e l’ascensore sociale ha sempre funzionato. Un ambiente sociale inclusivo, che ha creato coesione, a cui hanno contribuito in una competizione costruttiva anche altre matrici culturali e politiche. Il nuovo millennio ha segnato un profondo divorzio di quella corrispondenza di ricette nazionali e modello locale. Sul piano nazionale il riferimento, semplificando, è diventato il socialismo liberale di Tony Blair, a livello locale si è rimasti ancorati ai vecchi modelli socialdemocratici che mal si sposavano con il menù di privatizzazioni, liberalizzazioni e flessibilità dei fattori produttivi della nuova sinistra. Le ricette lib-lab non sono mai diventate la nuova ispirazione del governo locale, almeno in Emilia Romagna, ne hanno mai inaugurato una nuova stagione. Nelle roccaforti rosse niente privatizzazioni, niente liberalizzazioni, nessun laboratorio per sperimentare ed anticipare, semmai la conservazione ostinata di un passato socialdemocratico sempre più esausto».

Dove li vede questi comportamenti?

«Ci sono eventi emblematici che testimoniano il divorzio tra quanto predicato a livello nazionale e le concrete politiche locali. Nel giro di pochissimi anni il rifiuto delle privatizzazioni ha cancellato due perle del sistema locale come Aeradria e la Cassa di Risparmio, mentre imprese importanti, ma cresciute in mercati chiusi hanno pagato l’incapacità di adeguarsi. Basta pensare ai fallimenti di impresa che si sono susseguiti nel mondo cooperativo, o alla triste fine di CNA Servizi. Il colpo di grazia, che porta all’esaurimento di quel modello, avviene con l’esplodere dei conti pubblici, con i drastici tagli della finanza locale, con l’abbassamento della competitività territoriale. Mettiamoci anche uno scadere del personale politico dovuto alla fine dei grandi partiti di massa. Il modello inclusivo, si è progressivamente trasformato, agli occhi di una parte sempre più ampia di popolazione, in un sistema che non riusciva più ad offrire la crescita dei decenni precedenti, dominato da un ceto politico che, arroccato nei gangli del potere, abbandonava a se stessi i cittadini, i lavoratori, i cooperatori, i risparmiatori. Ciascuno alla fine si è arrangiato da solo (verrebbe da dire per fortuna), applaude se il sindaco è bravo e fa la cose giuste, ma l’“effetto comunità” è un’altra cosa».

Lei parla di comunità: secondo alcuni analisti, il voto del 4 marzo mette in rilievo un’Italia di persone sole.

«Non sto qui a discutere delle sorti del liberalismo nella sua declinazione di sinistra. Non mi nascondo le sue difficoltà, tuttavia non sono convinto che l’esito inevitabile di quelle politiche sia la solitudine dell’individuo, anzi credo che sia necessario e possibile interpretarle in una chiave comunitaria. Se la sinistra avrà un futuro questa è la sfida da vincere, mi piacerebbe che in questa regione si tornasse ad inventarlo come è avvenuto per molti decenni nel dopoguerra. Ma c’è anche un grande assente da qualche anno in questa tormentata vicenda ed è il protagonismo della cultura politica e sociale del mondo cattolico italiano. Mentre assistiamo ad un pontificato straordinariamente capace di parlare al popolo è come se il laicato cattolico non avesse più da dire e da dare nulla alla politica italiana. Qualcosa ancora vive dentro al PD e dentro Forza Italia, ma nei due vincitori di queste elezioni non si ravvisa traccia di quella cultura, ne di suoi possibili interpreti. Anche di qui credo occorra ripartire per ricostruire un partito della comunità».

Le città della Romagna non possono essere neanche lontanamente paragonate alla Roma del sindaco Marino o alla Sicilia di Crocetta.

Si tratta di città mediamente amministrate in maniera dignitosa, con servizi abbastanza efficienti, con livelli di reddito più alti della media nazionale, inserite nei circuiti più virtuosi dell'economia del nostro paese che guidano la ripresa.

In alcuni casi, come quello della città di Rimini, si assiste negli ultimi anni ad una vera e propria rinascita del tessuto urbano ed un sostanziale miglioramento delle infrastrutture civili.

Tutto ciò non ha messo tuttavia al riparo il PD dalla più sonora batosta elettorale di sempre.

Le elezioni del 4 Marzo rappresentano senza dubbio la definitiva conclusione di un'intera epoca politica per le nostre comunità e sarebbe utile per chi ha perso, ma anche per chi ha vinto, capire cosa è successo.

Prendo a riferimento il dato elettorale del PD nel comune di Misano (21,98%).

Per me è emblematico non solo perché è quello che più si avvicina alla media ottenuta dal PD nel riminese (22,13%), ma anche perché, negli anni d’oro, aveva una delle percentuali più alte per la sinistra.

Il suo sindaco inoltre è una personalità di primo piano del PD, segretario provinciale. Aggiungo che si tratta obiettivamente di un comune ben amministrato, che ha realizzato opere pubbliche importanti, invidiate dai cittadini di altri comuni.

A Misano nelle elezioni politiche del 1976 il PCI, al suo apice, ottenne 3040 voti pari al 62,49%.

Vent’anni dopo, nel 1996, dopo il crollo del muro, dopo tangentopoli, dopo il primo fallimento di Berlusconi, il PDS al proporzionale raccolse 2732 voti pari al 40,74%, ma l’Ulivo all’uninominale, con la percentuale del 60,65, si avvicinava all’epoca d’oro, con cifre assolute sopra i 4000 voti.

I dieci anni successivi, quelli dell’alternanza alla guida della seconda repubblica, erodono solo parzialmente quel risultato.

Nel 2006, di nuovo vincente Prodi, si vota per la prima volta con il Porcellum. L’alleanza di centro sinistra è quella dell’Unione che raccoglie il 57,58%, c’è già una lista unica che prepara la nascita del PD, quella dell’Ulivo con 3214 voti il 42,38%.

Sono passati trent’anni, la popolazione è cresciuta, l’affluenza al voto è un po’ diminuita, i voti grosso modo rimangono quelli. Ciò che si guadagna al centro si perde a sinistra, dove Rifondazione e Comunisti Italiani, entrambi dentro l’Unione, sommati raccolgono 659 voti, 8,69%.

Si torna la voto dopo due anni, nel 2008. E' la prima vera grande frattura nel comportamento elettorale, a Misano come in gran parte dell'Emilia Romagna rossa.

Per il centro sinistra c’è alle spalle la devastante esperienza del governo dell’Unione, ci si affida a Veltroni ed alla nascita del PD senza speranza di vittoria, ma con l'ambizione di segnare un nuovo inizio per il centro sinistra.

Il PD al suo esordio raccoglie 3153, il 41,76%. Veltroni tampona l’emorragia, assorbendo ed attirando dalla vecchia Unione tutto l’elettorato di matrice riformista.

Il prezzo maggiore lo paga la sinistra critica (260 voti, 3,44%), ma complessivamente le forze che facevano parte dell’Unione lasciano sul campo circa il 10% a vantaggio del centro destra.

E’ la certificazione di una svolta negli orientamenti dell’elettorato, i due anni dell’Unione hanno irrimediabilmente minato la credibilità della classe dirigente del centro sinistra, ciò avviene alle soglie della grande recessione. La diga dello zoccolo duro ormai fa acqua da troppe parti e in mare invece si prepara la tempesta.

Nel 2013, dopo il travagliato tramonto di Berlusconi, dopo lo spread e l’emergenza, dopo il sangue e le lacrime del governo Monti, nonostante il vento favorevole e il grande vantaggio attestato dai sondaggi, la campagna elettorale di Bersani si conclude con una "non vittoria".

La frana investe le regioni rosse, in particolare l’Emilia Romagna e le Marche dove esplode il M5S.

A Misano si sgonfiano i consensi al PD, 2313 voti, pari al 29,98%, la coalizione di Monti supera di poco i 500 voti e non raggiunge il 7%. Anche sommati non si avvicinano a quelli di Veltroni.

Il M5S ottiene una delle percentuali più alte della regione 34,88%, quasi 400 voti in più del PD, la Lega invece rimane un fenomeno marginale, 100 voti.

La crisi ha creato un abisso, ha scagliato i cittadini contro l'Europa responsabile dei sacrifici, ha scavato la fossa al vecchio sistema politico ed il PD sciaguratamente ci si è buttato dentro.

Invece di parlare del paese, individuare un percorso diverso, ha continuato a duellare con Berlusconi nel teatrino della politica, a suon di bunga bunga e di giaguari da smacchiare.

  1. 2018. Cinque anni, tre governi senza mai una maggioranza scelta dai cittadini, un referendum perso abbondantemente.

Non servono a nulla tutti i fondamentali dell'economia migliorati, non servono le riforme ed i nuovi diritti, e non servono neppure le stagioni turistiche in ascesa, i consumi che riprendono, il mercato immobiliare che torna a muoversi.

E' la stagione della paura (per gli immigrati), del risentimento (per la fine delle garanzie) e del rifiuto (per le vicende del giglio magico), è la stagione degli elettori che vogliono voltare pagina.

Il partito della sinistra riformista tocca il suo minimo storico 1680 voti, il 21,98%.

Il M5S conferma più o meno i voti di cinque anni prima, 2786 pari al 35,39%. Chi esplode nei consensi è la Lega con 1458 voti, che con il 19,08%, fa sentire il fiato sul collo al PD. C'è stata una vera e propria trasmigrazione di elettori. La prima nel 2013 ha lasciato il PD per il M5S, adesso fuggono verso Salvini.

In quarant'anni il mondo è cambiato e nel microcosmo emblematico misanese anche lo scenario politico è mutato altrettanto radicalmente.

Nel 1976 gli aventi diritto al voto erano 5126, i votanti 4982. Il PCI si aggiudicava 3040 voti.

Misano è cresciuta, oggi gli elettori sono diventati 10.063, i votanti un pò meno, sono comunque 8026.

Di fronte ad un elettorato che raddoppia, il consenso politico della sinistra, in voti assoluti invece si dimezza e in termini percentuali si riduce ad un terzo. Un ribaltamento totale.

Impressiona che ciò avvenga dove ancora a livello locale governa la sinistra. Dopo le sconfitte di Bellaria, Riccione, Coriano e Cattolica tuttavia i prossimi turni di voto locale sembrano segnati.

La sentenza è chiara: se il PD rimane quello che è attualmente, per i valori ed i programmi della sinistra, nella nostra terra, non ci sono più ruoli da protagonista.

Quarant’anni, è stato un lungo addio, ma adesso è cominciata un'altra storia.

Sergio Gambini

C’è stato un consistente flusso di voti dal Pd alla Lega. La nostra lettura dei dati elettorali, intuitiva ed empirica, trova oggi conferma in uno studio del CISE (Centro Italiano Studi Elettorali), un istituto legato alla Luiss di Roma.

In uno studio pubblicato oggi sul loro sito emerge che il 12 per cento degli elettori che nel 2013 avevano scelto la coalizione guidata da Bersani, nelle elezioni del 4 marzo il 12 per cento ha votato la Lega e il 13 per cento il Movimento 5 Stelle. Il Pd è il partito che ha avuto l’elettorato più in fuga: infatti solo il 45 per cento ha confermato la scelta effettuata cinque anni fa. Rilevante anche il fatto che il 18 per cento, evidentemente non riconoscendosi in alcuna offerta politica, si è rifugiato nell’area del non voto.

Ma ci sono altri dati molto interessanti. Il primo è la consistenza dello zoccolo duro del Movimento 5 Stelle: il 79 per cento ha confermato il proprio voto, mentre il 21 per cento si è orientato verso la Lega. Quindi è un elettorato sensibile esclusivamente alle sirene populiste e per nulla influenzato dalle disavventure locali del movimento di Di Maio (mancata presenza alle comunali del 2016, caso Sarti).

L’altro elemento – molto più clamoroso - è il flusso di voti dal centrodestra al Pd. «A Rimini – scrive il CISE - si segnala un flusso significativo (oltre un elettore su 30) dal centrodestra 2013 alle forze del centrosinistra 2018. Si tratta di uno spostamento di elettori già osservato a Torino, Prato e Reggio Calabria, che però qui raggiunge il proprio massimo in consistenza, sfiorando il 20% dell’elettorato 2013 del centrodestra». Scendendo nel dettaglio, il 12 per cento di ex berlusconiani ha votato Pd, il 2 per cento il solo candidato di centrosinistra del collegio uninominale, il 6 per cento i partiti alleati del Pd. Va inoltre aggiunto che sono finiti al Pd il 40 per cento dei voti raccolti nel 2013 dalla coalizione di Mario Monti.

La controprova la si ha esaminando la composizione attuale dell’elettorato. «Il PD - osserva il CISE - ad oggi vede un 69 per cento di elettori di centrosinistra del 2013 e rispettivamente il 18 per cento e il 13 per cento di elettori di estrazione centrista o di centrodestra, segno che la trasformazione del PD in un partito a trazione centrista si sta compiendo anche in una importante provincia della Zona Rossa, e nonostante il complessivo arretramento elettorale».

La presenza del candidato Sergio Pizzolante è quindi servita a drenare voti dal centrodestra al centrosinistra, anche se non è servita a compensare le consistenti fughe verso Lega e 5 Stelle.

La composizione dell’elettorato di Forza Italia è composta per il 72 per cento da quanti nel 2013 avevano votato centrodestra, per l’8 per cento dalla coalizione Monti e per il 7 per cento da ex elettori del Pd di Bersani.

Nel Movimento 5 Stelle la componente più consistente (80 per cento) è rappresentata dagli elettori fedeli, mentre il 14 per cento arriva dal Pd, e il 4 per cento dal centrodestra.

«Un capitolo a parte – scrive il Cise - merita ancora il nuovo elettorato leghista, che è composto ora in egual misura da ex-5 Stelle (36per cento) e da elettori già in precedenza di centrodestra (37 per cento). Anche qui – il dato è molto significativo – il 22 per cento è composto da coloro che avevano accordato la propria preferenza alla coalizione guidata da Bersani».

Il consigliere comunale, Simone Bertozzi, perennemente a disagio nel Pd renziano, di fronte al caso di Mario Siliquini, passato dal voto al Pci al voto alla Lega, ha postato su Facebook «Secondo me uno così non è mai stato di sinistra». Forse senza saperlo o volerlo, Bertozzi ha detto una verità molto più generale, non semplicemente riferita all’ormai famoso riminese intervistato da La7.

Quando il Pci a Riccione, Misano, Santarcangelo, e per molto tempo anche a Rimini, raccoglieva il 40, 50, 60 per cento dei voti, i consensi arrivavano forse da un elettorato tutto di sinistra, se per sinistra si intende tutto l’armamentario ideologico otto/novecentesco, dall’idea eguaglianza sociale al mito della Rivoluzione d’ottobre? Per molti certamente faceva presa il richiamo ideologico, per molti altri, forse la maggioranza, no. E certamente la base sociale dalle nostre parti non era composta in modo preponderante dal proletariato urbano e dai braccianti contadini. Il Pci è sempre riuscito, soprattutto a livello amministrativo, a coagulare il consenso dei ceti medi. Non si spiegherebbero altrimenti le alte percentuali conservate per decenni se non vi fossero stati compresi anche i voti di commercianti, artigiani, bagnini, albergatori, insegnanti, impiegati pubblici. Viene in mente un ritratto di Terzo Pierani all’apice del suo successo firmato dal compianto Silvano Cardellini: passava con disinvoltura dalla celebrazione del mito dell’Urss in sezione all’accordo con le categorie economiche del turismo in città. Del resto è nella nostra regione, nel famoso discorso di Reggio Emilia del 1946, che Togliatti fece la storica apertura ai ceti medi, che molto peso ebbe nelle successive strategie del partito, fino al compromesso storico di berlingueriana memoria.

Cosa chiedevano queste categorie al Pci e ai suoi derivati Pds e Ds: non certo la realizzazione del socialismo, ma un sistema di rappresentanza e di protezione sociale, intesa come garanzia di poter perseguire il proprio piccolo sogno di benessere. Anche negli anni della sinistra vincente, capitava non di radio di trovare persone con il cuore a sinistra e il portafoglio (ed anche taluni giudizi socio-culturali) a destra. I nomadi, per fare un esempio, sono sempre stati indigesti ad un certo elettorato di sinistra, anche di estrazione popolare. Qualcuno forse ha dimenticato le proteste dei primi anni Novanta, quando era sindaco Chicchi?

Prima che Sergio Pizzolante fosse e scoprisse la necessità di dare rappresentanza al ceto medio, ossatura della democrazia, il partito storico della sinistra aveva ampiamente arato quelle praterie. D’altra parte Pizzolante ha avuto buon gioco e successo con il suo Patto Civico perché ha capito per primo e in tempo utile che il Pd non era più in grado di intercettare da solo il voto del ceto medio. La frana, cominciata da tempo, è stata arginata nel 2016 ed è scesa rovinosamente a valle domenica scorsa.

Quindi nessuna sorpresa di fronte ad un flusso diretto di voti dal Pd alla Lega. C’è anche qualche riscontro numerico. Gli analisti dei flussi hanno detto che a livello nazionale due milioni e mezzo di voti sono passati dal Pd ai 5 Stelle. Se si guardano i risultati locali, si vede invece che il movimento grillino ha ottenuto poco più del 2013: nella nostra provincia, da sempre anello debole della sinistra in Emilia Romagna, l’aratura dell’orto ex comunista è avvenuta cinque anni prima. Se i candidati del centro sinistra sono arrivati addirittura terzi, a molte lunghezze di distanza, è perché la domanda di rappresentanza e protezione sociale si è riversata sulla Lega. Per protezione sociale intendiamo non solo i classici punti del welfare (le pensioni per esempio) ma anche la protezione di fronte ad un mondo cambiato che si percepisce come ostile rispetto al benessere faticosamente acquisito ed oggi in pericolo (Europa, meccanismi della finanza, immigrazione).

Se a fuggire dal Pd a livello locale sono stati il ceto medio e l’elettorato moderato, appare quindi smentita la tesi secondo cui il peccato mortale del Pd sarebbe quello di non essere sufficientemente di sinistra. Il tracollo dei democratici e la contemporanea vittoria di 5 Stelle e Lega hanno messo in ombra il fiasco clamoroso di Liberi e Uguali. Se c’era una domanda di sinistra inevasa, il partito di Grasso e soci avrebbe dovuto ottenere un successo clamoroso. Anche a Rimini, dove hanno schierato un ex sindaco, ha invece raccolto un magro risultato. Invece che guardare all’indietro, al recupero di categorie proprie di una sinistra del secolo scorso, il Pd dovrebbe invece riformulare – in altri termini e con altro personale politico – la scommessa persa da Renzi: costruire un partito di sinistra moderno, capace di rispondere ai bisogni di una società cambiata, capace di dare rappresentanza alle nuove fasce deboli (per esempio partite Iva e precari) e al ceto medio in cerca di ripresa. Ma questi sono consigli non richiesti e ci fermiamo qui.

Valerio Lessi

           

Passata l’ubriacatura da “vittoria” sarà bene che il centrodestra riminese valuti attentamente la realtà attuale e provi ad immaginare la situazione che si verrà a creare in futuro.

L’ottimo risultato della lega, se verrà usato per mettere un cartellino di occupato, sarà una sciagura per tutto il centrodestra. Si deve apprezzare il buon risultato di Fratelli d’Italia che sicuramente sarebbe stato migliore se a capolista nel listino ci fosse stato un riminese. Senza nulla togliere all’ottimo Bignami, lo stesso ragionamento può valere anche per Forza Italia che è stata tirata unicamente dalla candidatura riminese di Antonio Barboni al Senato e dall’assessore Scaroni a Bellaria.

Faranno bene i vecchi e nuovi dirigenti di Forza Italia a capire dove sono quei punti percentuali che sono mancati all’appello.

Per una seria analisi, le componenti emarginate dal Segretario Regionale non cerchino rivincite infantili nei confronti di coloro che hanno servito il partito, anche se capitanato da un incapace. Chiunque guiderà Forza Italia dovrà cercare l’inclusione e l’unità. Palmizio è stato una tragedia ma visto come sono andate le cose in altre regioni, ho l’impressione che di incompetenti ce ne fossero parecchi, Palmizio non era il solo a credere che unicamente Berlusconi porti i voti, che una classe dirigente locale non serva e che si possa candidare chiunque purchè grato e ubbidiente.

Chi in Forza Italia dovrà valutare una strategia per i prossimi mesi, tenga conto che questa volta i grillini hanno già in partenza un candidato forte da non prendere sotto gamba. Chi in una competizione come quella appena conclusa porta a casa un grosso bottino di voti personali sarà logicamente uno dei due avversari.

Credo di dire un’ovvietà se invito tutti a non considerare più l’attuale Sindaco riminese l’uomo da battere. Il centro destra a mio parere se la dovrà vedere con Emma Petitti che non ha un approccio meramente estetico all’amministrazione ma sta facendo un ottimo lavoro come assessore al bilancio della Regione Emilia Romagna; sono molti gli ambienti economici riminesi che la stimano e ne apprezzano le capacità. Non è inoltre scontato che il certo ricompattamento del centro sinistra, escluda automaticamente una componente moderata.

Forza Italia può aspettare di capire se ci sarà un rapido ritorno alle urne per eleggere un nuovo Parlamento, magari con una legge solo maggioritaria, ma non può aspettare all’infinito per formare un coeso gruppo dirigente mobilitato sul territorio.

Esiste una prateria politicamente arabile fuori dalle quattro gambe attuali del centrodestra, esistono civismi intelligenti che in questa occasione hanno con molta discrezione aiutato l’elezione di Barboni e della Raffaelli. Forza Italia dovrà recuperare i punti percentuali mancanti per essere credibile nella partita tutta in salita col doppio turno alle prossime elezioni comunali.

Gianni Piacenti

Parco del Mare: il capogruppo della Lega, Marzio Pecci, ha sollevato in consiglio comunale la questione degli accordi ex art. 18 della legge urbanistica regionale che l’amministrazione in questi giorni sta sottoponendo agli operatori che hanno manifestato interesse al progetto.

Secondo le informazioni raccolte da Pecci, gli atti di cui si chiede la sottoscrizione sembrano sbilanciati verso i diritti del Comune, ponendo il cittadino in una condizione subordinata perché nulla può essere discusso. Sempre secondo Pecci, il Comune dichiara di essere proprietario delle aree ma non sono indicati i titoli di proprietà. Come diritto di superficie vengono chiesti prezzi al di sopra del mercato, viene chiesta inoltre una fideiussione pari al 25 per cento dell’importo finale del finanziamento. Sono previste penali, con facoltà del Comune di trattenere le opere o di demolirne a spese degli operatori.

Sembra comunque che l’iniziativa dell’amministrazione non abbia avuto successo, perché non ci sono state adesioni. Pecci ha quindi chiesto che la giunta dia ai consiglieri tutta la documentazione e venga indetto un consiglio comunale dedicato all’argomento.

L’assessore all’urbanistica Roberta Frisoni si è detta sorpresa che Pecci abbia messo i discussione la proprietà delle aree, visto che si tratta di intervenire sul lungomare che appartiene al Comune.

Gli accordi ex art. 18 sono accordi fra pubblico e privato, nei quali l’amministrazione, oltre ad agevolare l’investimento privato, deve necessariamente tutelare l’interesse pubblico. Le clausole proposte sono le stesse di altri accordi ex art. 18, come quello recentemente approvato sull’area Fox. Quell’accordo è stato reso pubblico una volta che è stato perfezionato il percorso, nel caso del Parco del Mare siamo ancora in una fase precedente.

È vero che ancora non sono pervenute adesioni, ma non sono ancora scaduti i termini. In ogni caso sarà il consiglio comunale a dover ratificare questi accordi.

Primo consiglio comunale dopo il terremoto elettorale del 4 marzo e l’ordine del giorno ha voluto che ci fosse l’argomento divisivo per eccellenza, quello dei nomadi. E, infatti, non sono mancate dai banchi dell’opposizione ironiche allusioni ai “successi” delle scelte amministrative della giunta Gnassi.

Si doveva discutere una mozione presentata nel luglio 2017 da Gioenzo Renzi (Fratelli d’Italia), il consigliere della Lega Matteo Zoccarato è a sua volta intervenuto con un’interrogazione sul destino dei terreni di via Feleto, dove dovrebbe essere realizzata una delle microaree per ospitare i nomadi che dovranno abbandonare il campo abusivo di via Islanda.

Partiamo da questi terreni. Secondo Zoccarato non potranno essere utilizzati per lo scopo deciso perché il Comune non ne ha più la proprietà. Cosa è successo? Quei terreni erano stati acquisiti al patrimonio comunale nel 1988 dopo che il Comune aveva contestato al proprietario una lottizzazione abusiva. Solo che l’iter giudiziario che ne è seguito ha portato lo scorso 12 febbraio ad una sentenza che ha visto il privato avere la meglio riottenendo per usucapione la proprietà di quei terreni. Probabile che altri proprietari di via Feleto facciano lo stesso. L’assessore Gloria Lisi ha però risposto dicendo che l’area individuata dal Comune per i nomadi è già stata acquisita al patrimonio comunale enon è soggetta ad alcun contenzioso giuridico. Quindi nulla cambia rispetto al progetto delle microaree.

E così arriviamo al nocciolo del problema sollevato da Renzi: sono ormai due anni che si discute fino allo sfinimento dello smantellamento di via Islanda, a che punto siamo? Le notizie trapelate sui giornali sono le seguenti: cinque microaree per otto famiglie, altre tre famiglie destinati ad un alloggio nelle case popolari. Quali sono le spese a carico del Comune, che dovrà pagare gli oneri di urbanizzazione e la costruzione delle casette? Secondo i conti di Renzi, almeno 650 mila euro. Le casette saranno date in affitto per un canone di mille euro all’anno. Due le obiezioni di fondo di Renzi: come pensa il Comune di farsi pagare questo affitto quando i nomadi di via Islanda non hanno ancora saldato il debito di 33 mila euro dovuto al Comune intervenuto per bonificare l’area? Seconda obiezione: con questo progetto si crea una discriminazione nei confronti degli altri cittadini riminesi che devono stare anni in lista d’attesa per un alloggio nelle case popolari. Conclusione: visto che ormai la batosta elettorale l’avete presa, non è il caso di accantonare il progetto?

L’assessore Lisi è prontamente intervenuta per dire che no, il progetto non è stato accantonato. Non ha invece detto nulla sui tempi di realizzazione. Ha sostenuto che non è in grado di rispondere sui costi fino a quando non sarà presa la relativa delibera di giunta. Delibera che seguirà un iter partecipativo, i cittadini, singoli o associati, potranno presentare le loro deduzioni, che saranno discusse in commissione, e la parola definitiva spetterà infine al consiglio comunale. Ha anche spiegato che si è scelto di sostenere i costi di costruzione delle casette perché in questo modo il Comune avrà la possibilità di intervenire meglio per i controlli e per la manutenzione. Ha ribadito che il campo di via Islanda va chiuso perché non è tollerabile che alcuni cittadini riminesi vivano in quelle condizioni.

Gli altri consiglieri di opposizione sono intervenuti per dare man forte a Renzi. Nicola Marcello, di Forza Italia, ha detto tre cose: si invoca l’urgenza del problema, ma se davvero era urgente dovevate averlo già risolto; non c’è alcun obbligo legislativo di realizzare le microaree che a Bologna sono state bloccate per l’intervento di un consigliere comunale; perché il Comune non sistema le famiglie dei nomadi negli edifici scolastici che ha messo in vendita?

Secondo Luigi Camporesi, di Obiettivo Civico, l’amministrazione non è ancora riuscita a dimostrare che la scelta ipotizzata sia l’unica possibile e la migliore. A Pescara molte famiglie nomadi vivono da anni in appartamenti elle case popolari. “La vostra insistenza sulle microaree è inspiegabile”.

Zoccarato, della Lega, l’ha buttata in politica, sostenendo che il ritardo nella realizzazione del progetto dipende dai contrasti interni alla maggioranza, visto che anche Sergio Pizzolante si era speso in campagna elettorale per la soluzione delle microaree esclusivamente unifamigliari.

Ha rincarato la dose il capogruppo Marzio Pecci che ha ricordato che i nomadi minano la legalità e la sicurezza, che nessuno li vuole vicino a casa propria, nemmeno i consiglieri di maggioranza e gli assessori, che i risultati elettorali nelle zone interessate hanno detto chiaro e tondo “Gli zingari non li vogliamo”. Pecci ha quindi proposto come alternativa alle microaree che i nomadi siano ospitati dalle comunità del territorio, cioè San Patrignano e Papa Giovanni XXIII.

Gennaro Mauro, del Movimento nazionale, ha sostenuto che l’amministrazione ha dimostrato l’incapacità di risolvere il problema e ha invitato a intervenire subito, “anche se a noi potrebbe far comodo sfruttare politicamente la situazione alle prossime consultazioni elettorali”. Ha detto che la soluzione delle microaree accentua il disagio della comunità cittadina, che non è razzista, ma semplicemente vive un problema.

Della maggioranza, muto il Pd, assente per malattia Mario Erbetta di Patto Civico è intervenuto solo Kristian Gianfreda. Ha ammesso i ritardi ma osservato che è poco corretto il godimento politico dell’opposizione. Rispondendo a Renzi, ha sostenuto che ogni intervento sociale è discriminatorio, perché non è basato sul merito delle persone ma sulla loro situazione di bisogno.

Giovedì, 08 Marzo 2018 15:24

Un governo Pd e 5 Stelle? No, grazie

Hanno stravinto M5S e Lega, non mi piace per niente, ma… “chesaràmai” direbbe la vocina di Francesco Piccolo nel suo romanzo che vinse il premio Strega qualche anno fa.

La domanda non banale che ne consegue è: “ma se si provasse a fare funzionare la nostra democrazia come funziona in un paese normale, sarebbe davvero un problema?”

Gli americani hanno scelto Trump e per quattro anni se lo terranno. Cercheranno di evitare, confidando su una opposizione efficace, che non faccia troppi danni e poi se c’è un’alternativa credibile lo cambieranno, altrimenti, se si riterranno mediamente soddisfatti dell’operato del governo, lo confermeranno per altri quattro anni.

Il gioco democratico funziona così e nelle istituzioni delle democrazie liberali ci sono solidi anticorpi che ne evitano la manomissione. Se i russi ci provano ci sono procuratori che indagano, c’è la stampa libera che fa inchieste, ci sono sindacati, imprenditori, governatori, sindaci che dicono liberamente la loro.

E così se Trump questa volta è stato più bravo ad usare il web la prossima volta i Democratici avranno imparato la lezione e saranno all’altezza, come avranno imparato, si spera, a non sbagliare programma e candidato. Poi il popolo sovrano deciderà, come ha deciso sulla Brexit. Punto.

Pensare che invece da noi si debba trovare per forza un “aggiustamento” preventivo che ignora le scelte degli elettori e le contraddice non può funzionare, è un bizantinismo figlio della paura di ricadere in un regime illiberale. Un timore comprensibile al termine del ventennio fascista, ma che oggi, dopo più di settant’anni di democrazia, dopo la prima e la seconda repubblica, produce solo indebolimento ed allontanamento dalle istituzioni.

La tara consociativa infatti farà crescere sempre più l’antipolitica, sia che il M5S sia rigettato all’opposizione da una santa alleanza antigrillina o che invece sia promosso al governo grazie ai numeri forniti dal PD che ha identità radicalmente diversa e decisamente inconciliabile.

D’altra parte la pretesa dei pentastellati di guidare un governo a maggioranze variabili, che si compongono e scompongono secondo degli argomenti, come se l’Italia per ripartire non avesse bisogno di un solido disegno unitario ed organico, fa ricadere proprio in quella malattia consociativa e in quel mercato parlamentare che alla lunga soffoca la democrazia.

Pensare che al PD spetti il ruolo responsabile di assicurare comunque un governo al paese anche azzerando la sua identità riformista ed europeista, con il compito indifferentemente di sdoganare e “civilizzare” il M5S o di aiutare Berlusconi a tenere a bada Salvini, in realtà è assolutamente irresponsabile per la tenuta della nostra democrazia.

Cancellerebbe dal parlamento l’unica opposizione credibile alla maggioranza sovranista e statalista che è stata sancita dalle urne e sarebbe un colpo irrimediabile per il gioco dell’alternanza, che in Italia è stato conquistato con tanta fatica dopo il crollo della democrazia bloccata della prima repubblica.

Dovremmo saperlo ormai, perché una democrazia funzioni bene serve il governo, ma serve anche l’opposizione. Quelli che… “siamo una sinistra di governo, siamo una forza responsabile” questa volta forse è il caso che prendano atto.

E’ vero a causa di una cattiva legge elettorale non abbiamo oggi una maggioranza parlamentare, ma il voto un’indicazione inequivocabile l’ha data, le uniche due forze che hanno ottenuto un successo ( e che successo!) infatti hanno sensibilità, narrazioni e perfino programmi assai vicini.

L’unica scelta perciò che può mantenere una qualche credibilità alle nostre istituzioni rappresentative e che si colloca in una sintonia accettabile con il paese reale sarebbe un governo composto dal M5S e dalla Lega, con un’opposizione di destra rappresentata da Berlusconi e una di sinistra dal PD.

Solo un’esasperante sordità della partitocrazia vecchia e nuova può rifiutare questo esito. La sua negazione equivale ad un rifiuto dell’unico mandato elettorale chiaro, motivato esclusivamente da miseri calcoli di bottega e di leadership, alle spalle del paese reale.

Salvini e Di Maio non vogliono convivere al governo perché pretendono tutto e subito? Silvio Berlusconi non si rassegna ad un ruolo di secondo piano? Qualche notabile del PD brama la poltrona da presidente della Camera?

Se fossimo davvero ridotti così l’unica alternativa legittima al governo sovranista che gli elettori hanno richiesto a gran voce allora sarebbe un governo sostenuto da tutti, ma proprio da tutti, anche da Grasso e la Meloni, per capirci.

Missione assolutamente circoscritta ed inderogabile: una nuova legge elettorale che consenta un governo scelto dagli elettori e il rispetto dell’agenda tecnica per presentare una finanziaria neutra. Subito dopo si vada al voto, perchè alla legge di bilancio vera, quella dell’aggancio definitivo della ripresa economica, ci deve pensare il nuovo parlamento con la maggioranza certa che decideranno finalmente gli italiani.

Sergio Gambini

Come tanti ho fatto nottata seguendo la #maratonamentana. Mentre si affastellavano exit poll, proiezioni, primi dati ufficiali, i volti e le parole dei giornalisti in studio - tutti navigati e di testate prestigiose - lasciavano trasparire un certo stupore per l'esito della consultazione elettorale. A casa, davanti al televisorino, sinceramente, mi stupivo del loro stupore. Possibile non tenessero in considerazione una debacle del Pd? Un Movimento 5 Stelle così forte? Una Lega ben oltre Forza Italia? Possibile? Possibile non avessero annusato l'aria, non avessero tenuto conto delle tante parole di rabbia, malcontento, fastidio, rovesciate dalle persone, dai concittadini, su ogni piattaforma immaginabile? Possibile, a quanto pare.


   Un paio di giorni fa, concionando con un collega – appassionato di retroscena - ci si chiedeva quali percentuali potessero prendere i diversi partiti. Senza certezza alcuna l’avevo buttata là:  a spulciare sui social media, ad ascoltare le chiacchiere da bar e da treno, non mi sembrava irreale un risultato pentastellato sul trenta per cento un Pd sul venti per cento. ‘Uhm – aveva commentato – interessante: ma tu, a forza di fare il pendolare, sei un po’ tarato sul treno. Su queste parole dal basso, sulla gggente’.


   Aveva ragione. Sono tarato sul treno. Però, dal treno, il Paese lo guardo un po’ più da vicino. Lo vedo, lo sento, lo ‘odoro’ perfino. E per arrivarci ogni giorno, al treno, attraverso – a piedi - una città, i suoi parchi. Mi imbatto nei suoi abitanti, persino nei cartelloni pubblicitari e negli avvisi affissi sui tabelloni di metallo.


   Di convogli – sferraglianti sui binari solitamente in ritardo - ne prendo di tutti i tipi, a tutte le ore. Passo dalle Frecciabianca ai regionali. Dalla mattina, alla sera. Alla notte: quando ci si squadra per bene, prima di scegliere la carrozza in cui sedersi, per stare vicino a persone che possano parere ‘per bene’. Si vedono tante cose. Si ascoltano tante cose: perché tra un laptot e un tablet appoggiati sul tavolino di una Freccia o sulle ginocchia su un Regionale, le persone ancora parlano. Di quotidianità spiccia che, spesso, diventa politica. Il degrado dentro o fuori le stazioni; i treni che non arrivano mai in orario; le difficoltà pendolari non sono parole circoscritte al viaggio ma esondano verso un Paese – e chi lo gestisce - che viene vissuto come in decadimento. Ad attraversare una sala d’aspetto o un corridoio – che a Rimini è di fatto un  sala d’aspetto –  o ad attraversare un parcheggio dove di sera, sotto una tettoia, si rannicchiano infagottati gli ‘invisibili’, un tempo si sentiva dire ‘povera gente’, oggi si sente dire ‘guarda che gente’. E magari si tira dritto in fretta, per allontanarsi il prima possibile. Chè i tempi e le paure cambiano. E di questi tempi e di queste paure la politica dovrebbe occuparsi. E pure noi giornalisti. Se si vuole capire.
   In carrozza, si ascolta quello che le persone si raccontano: e quando parlano di politica l’intreccio è con la vita vissuta. Non con il retroscena di Palazzo, con le alchimie delle segrete stanze. Con i rapporti di forza interni. L’intreccio è con le bollette che ogni anno aumentano, con la benzina cara ‘perché ci sono ancora le accise legate alle guerre coloniali’, con l’ondata migratoria. Che intimorisce. Con il lavoro e l’economia che, se gli indici parlano di ripresa, la vita di tutti i giorni racconta, invece, una percezione totalmente diversa, con il Jobs Act che è sembrato un regalo agli imprenditori e i genitori che parlano al telefonino – a voce alta in mezzo allo scompartimento -  ai figli volati all’estero o ancora a casa malgrado l’età. Invece su tutte ‘ste cose, la politica poco si sofferma. E noi giornalisti, spesso, ancora meno.


   Non ascoltiamo abbastanza. Si capirebbe bene - ascoltando - che, a volte, la politica si dipana per scelte semplici, terra-terra.  Che a volte è sufficiente prestare orecchio alle chiacchiere in libertà. Già perché nei giorni scorsi, nelle scorse settimane quello che si sentiva ripetere più spesso - quasi un mantra - era 'saranno quello che saranno i 5 stelle ma gli altri li abbiamo già provati tutti e guarda come siamo messi..'. Non una finissima disamina, forse. Ma perché non darle alcun credito? Perché non credere che le cose, possano essere più basiche di quanto si pensi?
   Se nella vita di tutti i giorni funzionano dicotomie come bello/brutto, simpatico/antipatico, nuovo/vecchio, perché non credere che possano funzionare anche nella politica. Il referendum costituzionale Renzi lo aveva perso - banalmente - perché lo aveva trasformato in un voto sulla sua figura. E gli italiani avevano scelto sulla base di un giudizio simpatico/antipatico, non sull'opportunità di mantenere così com'è una Costituzione di cui la maggior parte fa fatica a ricordare il primo articolo. Simpatico o antipatico. Nulla più. Ieri il giudizio si è basato anche sulla contrapposizione vecchio/nuovo, sul 'proviamo anche questi, che gli altri…'. Una cosa semplice.
   Non un granché, forse, come motivazione da impaginare - su un giornale o giornalone che sia - o da riportare seduti in uno studio televisivo. Poco raffinata, forse. Ma utile per non ritrovarsi, poi, stupiti. All’improvviso.

Gianluca Angelini

Blog Pendolarità

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