93° anniversario della nascita di don Benzi, pellegrinaggio a Pompei
La Comunità di don Benzi organizza un pellegrinaggio al Santuario della Madonna di Pompei in occasione del 93° anniversario della nascita del suo fondatore. Venerdì 7 Settembre sono attese oltre 500 persone dalle case famiglia, dalle comunità e semplici devoti del sacerdote dalla tonaca lisa per vivere un momento di spiritualità e fraternità.
La giornata terminerà alle ore 16 con la Santa Messa celebrata dal Vescovo Tommaso Caputo.
«Abbiamo deciso di recarci in pellegrinaggio al Santuario dedicato alla Vergine del Santo Rosario sulle orme di Don Oreste che ci invitava a recitare il Rosario in famiglia. Nel sud Italia abbiamo tante case famiglia e comunità. Intendiamo affidare tutte le opere della Comunità sotto il manto della Madonna ed invocare il patrocinio di San Giuseppe». E' quanto dichiara Giovanni Paolo Ramonda, presidente della Comunità Papa Giovanni XXIII e successore di don Oreste Benzi.
«Don Benzi la corona del Rosario ha imparato a sgranarla fin dai primi anni di vita, sulle ginocchia della mamma –. continua Ramonda – Ne teneva una sempre in tasca, per estrarla un paio di volte al giorno ed affidare alla “Madre” il suo instancabile peregrinare tra i poveri, gli emarginati, quegli “umili” indicati da Maria come prediletti da Dio nello stupendo canto del Magnificat».
Don Benzi dedicò alla Madonna uno di suoi ultimi libri, Il sì di Maria, un viaggio attraverso i venti misteri del Rosario, per aiutare a passare dalla semplice devozione ad una reale conversione.
Il Santuario di Pompei è uno dei più importanti e conosciuti santuari mariani in Italia e nel mondo. Il Vescovo Prelato Mons. Tommaso Caputo ha voluto la presenza della Comunità a Pompei in linea con il carisma del fondatore del Santuario, il Beato Bartolo Longo, che tanto si prodigò per l’infanzia abbandonata e i figli dei carcerati.
La Comunità Papa Giovanni XXIII è presente a Pompei dal 2014 con la casa famiglia gestita dai coniugi Buonocore, originari di Vico Equense (NA). In questi quattro anni sono stati accolti ragazze madri, bambini con disabilità grave, ragazzi con gravi problematiche familiari, ex carcerati, una persona accolta per essere sostenuta prima e dopo un delicato intervento al cuore, anziani. Da due anni è presente anche un’altra casa di fraternità e accoglienza. In essa vivono due bambini con gravi disabilità e vi sono state accolte madri con bambini, ragazze provenienti dalla tratta e donne con disagio sociale.
Riccione, a chi non paga la Tari sarà sospesa la licenza
Il mancato pagamento della Tari comporterà la sospensione della licenza commerciale e dell’attività autorizzata per il tempo occorrente ad uniformarsi alle prescrizioni violate. Lo ha annunciato il sindaco di Riccione in un incontro con i rappresentanti delle associazioni di categoria.
Verranno disposti degli accertamenti fiscali d’intesa tra l’Ufficio Tributi e l’Ufficio Attività Produttive SUAP e una lettera verrà inviata, già da ora, ai singoli soggetti in ritardo nei pagamenti TARI. Una fermezza che, come ha sottolineato il sindaco ai rappresentanti delle categorie, non precluderà affatto l’ipotesi di vagliare i casi più bisognosi e quindi supportati da reali condizioni di disagio economico nel mancato pagamento dell’imposta.
“La lotta all’evasione fiscale è un obiettivo che ha già prodotto risultati ottimi – afferma il sindaco Tosi - solo nei primi sette mesi dell’anno ha prodotto un recupero IMU pari a 1.100.000 euro, il 31 agosto è scaduto il termine della seconda rata Tari, da qui partiremo per fare le prossime opportune valutazioni”.
Da Riccione arriva anche la notizia che il Comune Riccione affiderà a Geat s.r.l. il servizio di riscossione coattiva della Cosap ( canone per l’occupazione di spazi e aree pubbliche) e dell’imposta di pubblicità. A questi verranno affiancati in capo a Geat anche il servizio di recupero della TARI giornaliera inerente la COSAP oltre all’accertamento e la riscossione del canone di illuminazione votiva dei cimiteri.
Condor ceduta a Uvet, i particolari dell'accordo al TTG di ottobre
Il passaggio è avvenuto un mese fa. Il gruppo Uvet, guidato da Luca Patanè, ha acquisito il 100 per cento del tour operator Condor, uno storico marchio del turismo riminese. Il futuro di Condor nella galassia Uvet, che comprende anche Settemari, sarà svelato a Rimini in occasione di TTG Travel Experience, in Fiera dal 10 al 12 ottobre.
La storia di Condor è lunga 60 anni e porta la firma di Stefano Patacconi, uno dei protagonisti del turismo riminese nella seconda metà del Novecento. È stato lui negli anni Sessanta a far sbarcare all’aeroporto di Rimini decine e decine di charter provenienti dai paesi scandinavi. Arrivando poi, negli anni Settanta e Ottanta, ad essere il principale organizzatore delle vacanze dei riminesi, portandoli alle Canarie e in altre destinazioni.
Alla fine degli anni Novanta aveva dato vita ad un propria compagnia aerea, la Italy First, per la quale aveva affittato due Atr42 con relativi equipaggi, investendo parte dei 24 miliardi incassati per la vendita delle quote possedute in Air Europe di Lupo Rattazzi.
Imprenditore indomito, romagnolo verace, Stefano Patacconi era diventato anche l’editore di Libero, allora diretto da Vittorio Feltri. Finché in mondo inspiegabile, si tolse la vita gettandosi nel porto canale di Rimini nell’ottobre del 2001.
Condor vede attualmente come presidente e amministratore delegato Leonardo Patacconi, il figlio ancora minorenne alla morte del padre. Circa un anno fa era entrato in azienda Andrea Gilardi con l'incarico di direttore generale. A lui era stata infatti affidata la strategia di rilancio dell'azienda e per lui è ora probabile un ruolo di primo piano anche nel nuovo corso all'interno di Uvet.
Tutti i particolari si sapranno in ottobre al TTG, compresa la permanenza o meno a Rimini dell’azienda.
Turismo, dal lamento alla proposta: chi ci crede ancora?
Basta con le lamentele, basta con il muro del pianto sulle cose che non vanno. Basta con il brusio nostalgico sulla Rimini che non c’è più e che non tornerà più. “E’ un brusio – osserva Mauro Santinato, consulente turistico, patron di Teamwork - che ci disturba e che siamo tutti stanchi di ascoltare. Perché capita ogni giorno di sentire il piagnisteo di turisti e operatori che rimpiangono i bei tempi andati. Bisogna capire che non è quella Rimini che non esiste più. È quel tipo di vacanza, che non esiste più. E allora, se Rimini – e tutta la riviera – resta legata a quella particolare tipologia di turismo, come facciamo ad affrontare il futuro senza rimanere intrappolati in uno stereotipo decadente?”.
Ecco allora che per uscire dalla narrazione apocalittica sulla decadenza di Rimini ed approdare ad una narrazione positiva che ha voglia di scommettere sul futuro, Santinato e la sua Teamwork invitano gli operatori turistici di Rimini ad un pomeriggio di confronto (il 4 ottobre all’Hotel Savoia) nel segno di uno slogano inedito per questi dibattiti di fine stagione: #iocicredoancora.
Non sarà quindi il solito sfogatoio catartico che attribuisce ad altri responsabilità che sono anche proprie. Spiega Santinato: “Farò un intervento introduttivo per dire che il passato è passato e non possiamo modificarlo. Il futuro deve ancora accadere. Quello che abbiamo in mano è il presente dove costruire qualcosa che ci porti nel futuro. Dopo l’introduzione, inviterò tutti a segnalare un problema e un’ipotesi di proposta per risolverlo. Chi vuole continuare a lamentarsi senza spiegare cosa si può fare, è meglio che non venga”.
Eppure anche lei, Santinato, fino ad oggi non ha perso occasione per dipingere scenari catastrofici sul futuro del turismo a Rimini e in Riviera. “E’ vero e ho dovuto constatare che se ci si limita a fare l’elenco delle cose che non vanno poi non succede nulla. E non mi sta nemmeno bene di aprire i giornali e scoprire che le autorità sostengono che la stagione turistica è ottima, che i numeri sono da record…”.
Beh, ci sono anche le statistiche “ritoccate” che aiutano in questo. “Il problema è un altro. Se la stagione è andata bene, allora ditemi quanti a ottobre sono pronti a mettere mano al portafoglio ed investire per migliorare l’albergo. Allora ditemi di quanto sono cresciuti in conti in banca degli imprenditori. Poi magari scopriremo che una pensione da 33 camere viene messa in vendita a 290 mila euro, poco più di un appartamento. Basterebbe che ciascuno facesse una passeggiata, al mattino presto, da viale Vespucci a piazzale Pascoli, e osservasse i particolari, le facciate degli hotel, i negozi, i bar, e scoprirebbe quale ambiente offriamo ai turisti. Penso che si capirebbero molto cose”.
Forse, proprio a partire da queste considerazioni, nessuno ha più voglia di investire, tutti aspettano che cambi il contesto. “Eh no, questo è il grande alibi che dobbiamo smascherare: mi limito al lamento perché la situazione è senza sbocchi, non c’è niente da fare per cambiare. Sfido gli operatori: con la mia bacchetta magica trasformo completamente il contesto, con le vostre strutture sareste pronti a lavorare in questo nuovo scenario? Oppure, sareste pronti a investire da subito?”.
Proviamo ad immaginare cosa potrebbe succedere nella giornata del 4 ottobre. “Ciascuno avrà tempo cinque minuti per dire la sua. C’è il problema di cosa fare delle strutture marginali e fuori mercato? È il tema fondamentale e purtroppo mi risulta che non ci sia nessun documento scritto, nemmeno da parte delle associazioni degli albergatori, che presenti proposte concrete e realizzabili. Se qualcuno ha idee, le tiri fuori, le condivida e si batta per realizzarle. Perché nessun imprenditore si è associato ad altri e ha chiesto di prendere una delle ex colonie? Spaventati dalla probabile difficoltà dell’iter burocratico? Lo si dica e si affronti il problema. Si spendono tanti soldi per la promozione, hanno dato 150 mila euro a quattro influencer per fare i post su Instagram, perché invece non si pone a tema, con adeguati finanziamenti, la ristrutturazione delle strutture ricettive?”.
Secondo Santinato, Rimini ha bisogno di una nuova sferzata di entusiasmo e idee nuove, deve acquisire un appeal nuovo e attrarre tipologie di turismi diversificate e in grado di valorizzare e promuovere il territorio con un passaparola positivo, dal mare alla fiera, passando per l’entroterra e le innumerevoli esperienze a disposizione.
Sarà interessante vedere il 4 ottobre che esiti avrà questo sfogatoio con intenti propositivi. Soprattutto cosa risponderanno gli operatori alla sfida rappresenta tata dalla domanda “ma tu ci credi ancora?
Un verso di Wojtyla il tema del Meeting 2019, quello del quarantennale
Ecco il comunicato finale sul Meeting 2018 diffuso dagli organizzatori:
Il Meeting 2018 in tre brevi affermazioni. «Cosa ho visto a Rimini? Visitando la mostra su papa Francesco ho pianto di commozione tutto il tempo, e poi mi è successo lo stesso con quelle dedicate a Brunelleschi e a Giobbe». Parole di un intellettuale europeo, uno degli esponenti di punta dell’architettura contemporanea, Alberto Campo Baeza. «Essere felici è essere abbracciati» ha detto la giovane scrittrice argentina Veronica Cantero Burroni, nel corso di una testimonianza che ha lasciato il segno sul Meeting di quest’anno. L’ultima è la testimonianza di un giovane visitatore. «Il Meeting? Per me era il male assoluto. Oggi che l’ho visitato ho capito quanto sono stato stupido a non esserci mai stato. Il Meeting è un’esperienza, va vissuto, di qualsiasi pensiero, nazionalità, religione voi siate».
Tre esperienze in apparenza fragili e non rilevanti: la commozione di fronte alla bellezza, la felicità come abbraccio, lo scoprire se stessi nell’incontro con l’altro. Il Meeting nel 2018 fin dalla scelta del titolo ha scommesso sull’unico fattore che muove davvero la storia in modo positivo e duraturo, la persona. «Attenzione, non contrapponendo la felicità individuale a un mondo cattivo e ostile», spiega la presidente della Fondazione Meeting Emilia Guarnieri, «ma evidenziando una quantità impressionante di esperienze di realizzazione umana e costruzione sociale, nelle favelas di Salvador de Bahia come nella ricerca sulle cure palliative, nel pensare l’innovazione al di là della sola tecnologia o nel raccontare con occhi nuovi L’infinito di Leopardi».
«Non c’è formula o algoritmo che tenga», aggiunge Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà, «per contrastare il declino occorre puntare sulla persona, dare spazio al racconto di chi diventa imprenditore di se stesso anche nella ricerca del lavoro, favorire il dialogo tra persone di diversa religione, cultura, orientamento politico, come avvenuto con l’Intergruppo per la Sussidiarietà. Otto giorni di Meeting dimostrano che tutto questo è pratica vissuta e contributo reale alla vita del Paese, non utopia. Non a caso l’edizione di quest’anno ha rappresentato il segnale della ripartenza dopo la tragedia di Genova, attraverso la presenza del presidente Toti, del sindaco Bucci, dei parlamentari, ma anche il momento di una riflessione organica su quanto accaduto, con le voci del Porto di Genova, dei terminalisti, di RFI e con i convegni sulle grandi opere e il rapporto fra infrastrutture e mobilità».
Il Meeting 2018 si era aperto con il messaggio di Papa Francesco e del presidente Sergio Mattarella, i quali, ciascuno dalla propria prospettiva, hanno ripreso il titolo della manifestazione. Papa Francesco in particolare ha sottolineato l’assonanza con l’esperienza di san Benedetto da Norcia: «Mentre nuovi popoli premevano sui confini dell’antico Impero», ci ha scritto, «un giovane fece riecheggiare la voce del Salmista: “Chi è l’uomo che vuole la vita e desidera vedere giorni felici?». Il presidente Mattarella dal canto suo ha parlato della necessità dello spirito di pace e amicizia proprio del Meeting: «È dalla consapevolezza che ciascuno, con il suo credo e le sue convinzioni, arricchisce il nostro essere persona», ha scritto il Capo dello Stato, «che nasce la possibilità di rendere davvero umano il mondo».
Il “la” è stato dato poi dall’intervento inaugurale del nunzio negli Usa Christophe Pierre, quando ha ricordato che «La vera rivoluzione è la rivoluzione del cuore. Non possiamo costringere nessuno a credere, soprattutto non i giovani», perché la fede è una vita nuova che si comunica per grazia, e quindi solo «attraverso la testimonianza della nostra vita». È stato anche il Meeting di Giobbe, l’uomo che non vuole sfuggire alle domande drammatiche della vita, a cui sono stati dedicati la principale mostra e un grande incontro.
In pieno accordo con lo spirito e il titolo del Meeting anche “Attraverso il mare del desiderio”, rappresentato domenica 19 sulla Piazzetta sull’Acqua al Ponte di Tiberio. «Uno spettacolo che lega il destino del singolo e le forze che muovono il mondo», racconta il responsabile degli spettacoli del Meeting Otello Cenci. «Il testo, tratto da Paul Claudel nel 150mo anniversario della nascita, grazie anche alla nuova traduzione è stato rappresentato per la prima volta in Italia, per di più valorizzando il rapporto con Rimini attraverso la spettacolare location del Ponte di Tiberio che ha attirato cinquemila persone».
Quanto alle cifre, la XXXIX edizione mostra che il Meeting, nella sua formula rinnovata che ha scommesso su aree e spazi tematici, si consolida anche nei numeri. Foltissime la presenze (ne fa fede il numero di scontrini della ristorazione, superiore del 5% rispetto al 2017), il fundraising che tocca un nuovo record con 120mila euro di raccolta (centomila l’anno scorso), e naturalmente i 234 incontri (quasi raddoppiati i 118 dell’anno scorso) con 528 relatori (327 nella scorsa edizione), le 14 esposizioni, i 18 spettacoli, le 32 manifestazioni sportive. Il tutto in 130mila metri quadrati di Fiera (21mila dedicati alla ristorazione), con l’apporto di 2.927 volontari, il vero cuore pulsante della kermesse che ne mostra l’aspetto di gratuità. Quanto al capitolo costi, il Meeting 2018, che percepisce scarsissimi contributi pubblici, ha un budget di 5 milioni 972mila euro, le entrate principali sono i servizi di comunicazione per le aziende (3 milioni 550mila euro) e gli introiti dalla ristorazione (1 milione 104mila).
E così, accompagnando e vivendo da tanti anni l’evoluzione e il travaglio del Paese, il Meeting si avvia a concludere il quarto decennio della sua storia. Il titolo della quarantesima edizione del Meeting per l’amicizia fra i popoli, che si terrà nella Fiera di Rimini dal 18 al 24 agosto 2019, sarà
Nacque il tuo nome da ciò che fissavi
«È un verso di una poesia di Karol Wojtyla», spiega Emilia Guarnieri. «E quindi nel 2019 avremo un titolo in piena continuità con i contenuti di quest’anno. Se nel 2018 abbiamo messo al centro la persona, l’uomo che cerca la felicità e fa esperienza di essa, l’anno prossimo andremo ulteriormente al fondo per scoprire da dove può nascere il volto, la fisionomia della persona».
Meeting, alla mostra sul '68 con un protagonista riminese
La mostra del Meeting sul Sessantotto (Vogliamo tutto. 1968-2018) comincia con una sezione dedicata alla rivoluzione dei consumi ad inizio degli anni Sessanta. Un grande manifesto d’epoca della Lambretta promette la felicità su due ruote ad un ragazzo con una macchina fotografica appoggiato alla scooter, ad una ragazza ben agghindata, in uno scenario di mare e vacanza. Fabio Bruschi, protagonista del Sessantotto a Rimini e curatore di un documentato volume uscito nell’autunno scorso, parte subito mettendo qualche puntino sulle “i”.
“Bisogna evitare – dice – di allungare il brodo e comprendere nel Sessantotto un periodo che per alcuni dura addirittura trent’anni. Il Sessantotto è un evento che ha un inizio ed ha una fine. Altra cosa sono le premesse e altra cosa sono le conseguenza. Un conto è il Sessantotto, un altro sono sessantottini che sono venuti dopo. All’incontro di domenica sulla presentazione della mostra, lo storico Eugenio Capozzi ha sostenuto che il Sessantotto è stato un’affermazione di autodeterminazione individuale. Mi sono ritrovato di più nella posizione del professor Edoardo Bressan secondo cui dal Sessantotto è partita una ricerca dell’autodeterminazione ma in senso sociale piuttosto che individuale. C’è stato un riscoprirsi insieme agli altri”.
Torniamo alla rivoluzione dei consumi. È stato o non è stato il terreno di coltura del movimento? “Per la mia esperienza a Rimini il simbolo di tutto questo è stato l’Omnia, il grande magazzino dove potevi entrare liberamente, guardare e, se volevi, comprare. C’era un contrasto evidente fra i colori dell’Omnia, il regno della libertà, e il grigiore di Palazzo Buonadrata dove aveva sede il liceo classico. E poi c’era l’esperienza liberante dei paperbacks, i libri tascabili che potevi comprare dall’edicolante senza entrare in libreria che era un mondo che odorava di professori. Ed eravamo elettrizzati dai dischi, proprio nel ’69 uscì il doppio album dei Beatles. Comunque il mondo evocato dal manifesto della Lambretta era nato molto prima, almeno dieci anni prima. Le famiglie si trovarono con un reddito che consentiva loro di mandare i figli a scuola, era stata varata la scuola media unificata che portò molti a proseguire gli studi nelle scuole superiori. Il Sessantotto è esploso a causa delle promesse mancate di quel periodo”.
Anche in questo caso Bruschi si rifà alla sua esperienza. “Nelle medie – racconta – mi avevano regalato una bella edizione della Costituzione. Crescendo, ho visto che la realtà concreta era molto diversa dal bel disegno di società tracciato dai costituenti. Il disagio nelle scuole superiori era reale. L’autoritarismo dei presidi e dei professori non è un’invenzione. Fra gli studenti erano diffuse le nevrosi, alcuni avevano il blocco a entrare a scuola; molti erano anche i ritiri”.
Davanti ai pannelli che parlano del mondo cattolico e di Gioventù Studentesca, Bruschi ricorda l’inchiesta sul tempo libero svolta dall’associazione. “Un esperimento innovativo, la sociologia era una disciplina che in Italia non era ancora arrivata. Per questo io sostengo che a Rimini Gs è stata un fenomeno di modernità, americano. Comunque, su seimila studenti frequentanti ritirammo 2600 questionari compilati. E dalle rispose si scoprì che gli studenti avevano solo due ore di tempo libero al giorno, quelli dell’Iti un’ora e un quarto, perché alle ore di scuola e studio si aggiungevano quelle dei trasporti, perché venivano dai paesi del circondario. Quindi il disagio era reale e diffuso”.
Quindi qual è stata la molla che ha fatto scoppiare Il Sessantotto? “ Tutti insieme questi fenomeni che abbiamo visto. Un maggiore desiderio di libertà, il disagio sociale, l’insofferenza per una scuola autoritaria”.
Passiamo davanti a un pannello dove si ricorda la Populorum Progressio di Paolo VI. “In effetti ebbe una grande eco. Noi l’interpretammo nel senso che di fronte alle ingiustizie gli uomini e i popoli avevano il diritto di reagire”. Un pannello mostra i miti dell’epoca: Martin Luther King., Fidel Castro, Che Guevara. “Ricordo che eravamo a una tre giorni di Gs e arrivò la notizia della sua morte. Tutti fummo dispiaciuti”. Un altro pannello ricorda la “scoperta” dell’America Latina. “Su Rimini Studenti c’era Stefano Perugini che scriveva molti articoli sul tema”. Passiamo di fronte al pannello su don Milani. “La prima presentazione di Lettera a una professoressa la fece un circolo laico, il Gobetti. Poi lo riprese una docente cattolica del Serpieri, Loretta Forlani, e presto diventò un testo fondamentale, insieme a L’uono a una dimensione di Marcuse”.
Se c’è u punto che la mostra forse non mette adeguatamente in evidenza è come si è passati dallo spontaneismo iniziale alla ideologizzazione seguente. “L’anno scolastico 1967/68 si muove fra proteste di tipo sindacale e i primi accenni di contestazione politica globale. E si conclude in giugno con l’assemblea al cinema Italia in cui nasce ufficialmente il Movimento Studentesco Riminese. Nell’anno 1968/69 già comincia la polarizzazione fra le diverse componenti: la Fgci, Lotta Continua, l’Unione dei marxisti-leninisti, Servire il popolo”.-
Come è avvenuto il passaggio? Secondo Fabio Bruschi “è stato il riflesso ideologico della nostra sconfitta”. Cioè? “Ci eravamo mossi per chiedere il cambiamento della scuola. Al convegno di Gs del 7 aprile avevamo presentato proposte molte innovative e radicali. Ma non ebbero un seguito. E allora arrivò la grande polarizzazione fra gli estremisti e la burocrazia ministeriale. Io scelsi di stare con gli estremisti. Il grande errore di quel periodo è stato di abbandonare il terreno della scuola e dell’università per approdare all’estremismo ideologico. Come ha rinosciuto anche Anna Bravo in un suo libro”.
Giobbe e il mistero del male. Una mostra e Carròn al Meeting
C’era nella terra di Uz un uomo chiamato Giobbe, racconta la Bibbia. Ci sono nella terra che viviamo tanti nuovi Giobbe, documentati, nella mostra che vi ha dedicato il Meeting, da molte immagini che raccontano la sofferenza innocente dei nostri giorni. E chi nella sua vita non è stato per qualche momento un Giobbe? E chi non si è trovato a respingere le risposte giustificative, consolatorie, di quegli amici che presumono di poter spiegare il comportamento di Dio? Chi non ha chiamato qualche volta Dio a giudizio, chiedendogli ragione della presenza del male? Gli uomini moderni – come ha ricordato Juliàn Carròn nell’incontro su Giobbe e come documenta anche la mostra - hanno anche inventato una nuova disciplina filosofica e teologica, la teodicea, per spiegare il mistero del male e la giustizia di Dio. In realtà, e questo è il paradosso secondo Clive Stape Lewis, il cristianesimo suscita, piuttosto che risolvere, il problema della sofferenza.
Se c’è un aspetto interessante della mostra del Meeting è che non termina con una ricetta (d’altra parte come sarebbe possibile?) ma con alcune esperienze di uomini che si sono misurati con il problema del male e con la presenza (o assenza) di Dio: don Carlo Gnocchi e i bambini feriti in guerra; Etty Hillesum, che ad Auschwitz riesce a scrivere nel diario che la sua vita è diventata un colloquio ininterrotto con Dio; padre Massimiliano Kolbe che sempre in quel luogo offre in sacrificio la sua vita per la salvezza di un altro; Madre Teresa di Calcutta che si è chinata sul dolore dei più miserabili, don Paolo Bargiggia, malato di Sla che arriva a dire che per lui quella malattia è una grazia proprio perché molto cattiva; ed infine Mario Melazzini anche lui malato di Sla, noto perché ha ricoperto incarichi pubblici e politici, che è tornato la fede leggendo il libro di Giobbe e rivivendo il suo percorso. Al Meeting si è potuto ascoltare a viva voce la sua testimonianza. Dopo aver saputo della malattia, ha vissuto un anno lontano da tutti. Un amico gesuita gli regalò una Bibbia con il segnalibro su Giobbe. Ma per molto tempo non lo apre, perché per lui era una favola. Poi cominciò a leggerlo, ma senza risultato. “Prendere il libro di Giobbe è come tenere in mano un’anguilla, provi a stringerla forte ma ti scivola via”. Tutto è cambiato quando ha cominciato a paragonare il proprio percorso con quello di Giobbe. La ripugnanza per la malattia, la difficoltà con gli amici saccenti, il grido a Dio per chiedere perché. L’identificazione con Giobbe lo ha portato a riscoprire la presenza del Mistero. “La sofferenza – ha ripetuto più di una volta – non è desiderabile né augurabile. Però nel mio percorso, affrontando le sfide e le prove, sono arrivato a percepirla come un valore aggiunto”. Nella mostra un punto centrale di svolta, è la frase finale di Giobbe: “Ti conoscevo per sentito dire, ma ora ti ho incontrato e ti ho visto”. Una verità che per Melazzini è diventata esperienza.
Nella mostra tutto questo è documentato da una rappresentazione fisica in tre momenti. All’inizio un masso che incombe, il male che sovrasta l’esperienza umana e sembra non offrire via di scampo. Quel masso, lungo il percorso diventa un altare. Come disse Paul Caudel, non è una spiegazione che può salvare, ma una Presenza. In Cristo, il giusto sofferente, morto e risorto, si chiarisce il mistero dell’uomo e il problema del male. Al termine, quando il visitatore è invitato a guardare le esperienze umane in cui ciò è accaduto, c’è sempre il masso che incombe, ma è più in alto, è sorretto da una croce.
Nell’incontro dedicato a Giobbe, don Juliàn Carròn ha raccontato un’esperienza vissuta da insegnante. Uno studente era molto arrabbiato perché un compagno aveva avuto un incidente stradale. Gli chiede il sacerdote: “Se uno sconosciuto per strada ti dà una sberla, tu come reagisci?”. “Gliene restituisco due”. “E se invece, tornando a casa, la sberla la ricevi da tua madre?”. “Le chiederei perché”, fu la risposta. “E’ l’esperienza della convivenza con la madre, l’esperienza vissuta del suo bene, che ti consente di reagire chiedendo il perché. Solo avendo alla spalle una storia di rapporto con Dio, possiamo guardare tutto, anche il male, con la presenza di Dio negli occhi, senza fuggire o senza soccombere alla recriminazione”.
C’è uno spartiacque nella storia. La peste nel Medioevo aveva mietuto più vittime del terremoto di Lisbona, sessantamila morti. Ma nessuno aveva mai messo in discussione la giustizia di Dio. Solo in epoca moderna, il pensiero ha ceduto al sospetto su Dio, non lo ha più considerato un compagno ma un colpevole. E se a volte rimane il grido, con Kafka nel Processo, arriva a cancellare perfino la domanda.
Il filosofo Salvatore Natoli ha aggiunto un altro elemento alla riflessione. Perché Dio non è intervenuto ad Auschwitz per impedire il male? Perché si era di fronte ad un dolore non inflitto dalla natura (malattie, catastrofi) ma dall’uomo. Dio non può intervenire a impedire il male inflitto dagli uomini. “Lo scandalo del male – chiosa infine Carròn – è lo scandalo della libertà. Dio rispetta la libertà dell’uomo”.
Aveva ragione Josè Luis Borges: “Se esiste al mondo un libro che merita la parola sublime, credo che sia il libro di Giobbe”.
Valerio Lessi
Giorgio La Pira, la fede, la storia e gli incroci con CL
Il libro”Giorgio La Pira. La fede cambia la vita e la storia”, edito dalle Paoline, sarà presentato nell’ambito del Meeting 2018. L’appuntamento è alle ore 16 di giovedì 23 agosto al Book Corner accanto alla Libreria. L'autore Valerio Lessi sarà intervistato da Ivo Paiusco, presidente dell’Associazione Culturale Alcide De Gasperi, di Legnano. Di seguito un articolo che prsenta gli incroci fra il sindaco santo di Firenze e la storia di Comunione e Liberazione
Credo che il Meeting sia davvero il luogo giusto dove presentare questo libro. Non solo perché lo sguardo sulla storia e sul destino umano proprio di La Pira è in piena sintonia con il tema di quest’anno: “Le forze che muovono la storia sono le stesse che rendono l’uomo felice”. È il luogo adeguato per presentare il libro perché nella storia di Gioventù Studentesca, prima, e di Comunione e Liberazione poi, sono stati numerosi gli incroci fra La Pira e il movimento. Ricordo perfettamente come se fosse ieri una tre giorni nazionale di Gs a Pesaro (credo fosse il settembre 1975) quando fu letto un telegramma di Giorgio La Pira, accompagnato dalla precisazione, utile per noi giovani studenti, che si trattava di una persona che molta importanza aveva avuto nella storia del movimento.
Certamente il momento più importate è stata la partecipazione al famoso convegno di GS del 1962 (ricordato anche nella Vita di Giussani edita da Rizzoli) sul tema “Vivere le dimensioni del mondo”. Giorgio La Pira tenne una relazione il cui passaggio centrale è il seguente: «C’è una logica nel movimento dei popoli: essi, consapevoli o no, svolgono tutti un preciso disegno; ogni membro di quell’organismo che è l’umanità ha una sua funzione e un suo scopo. La chiave della storia universale, di questo movimento di tutti i popoli, sta tutta nella risposta alla domanda del Cristo: “Chi dicono gli uomini che io sia?”. Se il Cristo è il Figlio del Dio vivente (e la resurrezione ne è la prova), la storia è storia di una Persona, e la Chiesa è il prolungamento nel tempo e nello spazio di una Persona: lui. La storia vive e i secoli si svolgono perché Cristo possa svilupparsi, questo è il grande mistero della storia universale. Bisogna interpretare tutto nella Sua luce, bisogna credere nell’impossibile, perché nulla è impossibile a Dio».
Nel libro spiego come questa concezione della storia come biografia di Cristo La Pira l’abbia attinta dal teologo Vito Fornari, molto letto fino agli anni Quaranta del secolo scorso e poi dimenticato. La scoperta che ho poi compiuto, a libro purtroppo ormai stampato, è che Fornari è stato uno degli autori sui quali si è formato anche il giovane don Giussani. In una conversazione sugli autori che hanno influito su di lui, disse: «Un libro fondamentale per me , come genesi poetica per l’idea di Cristo, è di V. Fornari, La vita di Cristo. Avevo letto di lui anche L’arte del dire». Molte consonanze che si possono rintracciare fra il pensiero di Giussani e quello di La Pira (ad esempio l’idea del cristianesimo come esperienza di bellezza che attrae) hanno quindi le radici nella comunanza di letture giovanili.
Facendo un salto di un po’ di anni arriviamo alla seconda metà degli anni Settanta quando alcuni giovani giornalisti di CL e altri provenienti da altre esperienze, fra cui Vittorio Citterich, diedero vita a una settimanale che poi si chiamerà Il Sabato. Il nome venne proprio da La Pira, ai suoi ultimi giorni di vita. Ha raccontato Citterich: «Mi disse dunque La Pira, in uno degli ultimi incontri che avemmo, di andare avanti con “quei ragazzi, freschi, intelligenti, e un po’ accaniti” che avevano bisogno, a suo parere, anche di un’esperienza giornalistica più abile, tranquilla e ben orientata. “Cercate una testa che abbia un sapore bibico”, mi disse, “per esempio L’ultimo giorno” Replicai che mi sembrava piuttosto esagerato. “Sabato andrebbe bene, professore?”. “provate”. E provammo e il Sabato fu».
Nel 1996 La Stampa pubblicò una lunga intervista a don Giussani e l’intervistatore gli chiese se si sentiva più garantito da un cristiano al governo. «No, – rispose – Il problema è la sincera dedizione al bene comune e una competenza reale e adeguata. Ci può essere un cristiano ingolfato nei problemi ecclesiastici la cui onestà naturale e la cui competenza possono lasciare dubbi. Preferisco che non sia così. Come, secondo me, non è così per De Gasperi, La Pira, Moro e Andreotti».
Il giudizio, sorprendentemente ancora attuale a più di vent’anni di distanza, trova un riscontro in una lettera di La Pira a Pio XII del 1958. Il sindaco di Firenze polemizza contro un certo clericalismo in voga (non solo allora) fra i cristiani impegnati nell’agone pubblico: per fare politica non basta essere iscritti all’Azione cattolica o proclamarsi amico di questo o quel prelato. «Tutto questo è finito – proclama La Pira – Mia madre e i miei fratelli sono coloro che fanno la volontà del Padre mio».
Valerio Lessi
Trasformare la rabbia in coraggio. Meeting e politica, con molte sorprese
Mancava un esponente dei 5 stelle, ma vale il detto che gli assenti hanno sempre torto. C’erano rappresentanti di quasi tutti i partiti, e molti di peso. C’era Graziano Delrio, c’era Maria Stella Gelmini, c’erano Maurizio Lupi e Gabriele Toccafondi, naufraghi e orfani del crollo delle evidenze in versione partito e schieramento. C’era anche un esponente del governo, e molto influente, il sottosegretario Giancarlo Giorgetti. Era il primo incontro pubblico dell’Intergruppo parlamentare sulla sussidiarietà, nell’anno primo del governo legapentastellato. Nel trionfo della politica come scontro all’ultimo sangue, dove la demonizzazione del nemico è lo sport più praticato, dove ogni giorno si cerca di delegittimare l’avversario a colpi di fake news studiate a tavolino, insomma, in questo Parlamento così diverso da quelli che avevamo conosciuto, duecento deputati hanno sottoscritto il manifesto che propone un patto per il bene comune e un dialogo permanente su cinque temi Imprese, Sud, educazione, welfare, istituzioni.
Le prove di dialogo ci sono state ieri al Meeting, dove si è visto benissimo che alcuni sono al governo e altri all’opposizione, che le prospettive politiche sono diverse, ma ci si è confrontati su un terreno di valori comuni e soprattutto – e questa è una good news – senza i soliti insulti da talk show televisivo.
Se c’è un tema forte che quasi tutti hanno sottolineato, pur con inevitabili accenti diversi, è quello dell’educazione. Quando crolla tutto, quando nella società vengono meno i punti di riferimento, quando le persone sono sempre più sole e corrose dalla rabbia, o si riparte con un serio lavoro educativo o non si va da nessuna parte. L’ex ministro Delrio vi ha insistito co accerti forti. Si è detto spaventato da una società dove l’altro è visto solo come un competitore, e non solo in politica. Si fa fatica a riconoscere che l’altro è qualcuno su cui si può contare, ci si guarda sempre come nemici. “Se Giorgetti ha bisogno di qualcuno che gli badi i figli mentre è a Palazzo Chigi, io sono disponibile; perché non mi auguro che lui fallisca, mi auguro che riesca per il bene del Paese”. Il lavoro più urgente, secondo Delrio, è migliorare se stessi, fino a diventare santi, se si può.
Anche Maria Stella Gelmini, osservando come il Meeting vada controcorrente, insiste molto sull’educazione, sull’esigenza di far ripartire l’ascensore sociale, di non tornare indietro sul riconoscimento della libertà di educazione. Si sofferma sul rischio di deriva autoritaria, si scaglia contro il paventato ritorno delle nazionalizzazioni, e strappa anche qualche applauso. Maurizio Lupi che dell’Intergruppo è il presidente, ricorda che non era affatto scontato che si ripartisse anche in questa legislatura in cui è cambiato tutto. Ha citato Giorgio Gaber per sostenere che bisogna trasformare la rabbia in coraggio, il coraggio di guardare al futuro, di costruire qualcosa di positivo nelle nuove condizioni, diverse dalle precedenti; quindi nessuno sguardo rivolto all’indietro ma sempre avanti.
Fra tanti oppositori del governo gialloverde, l’intervento atteso con maggiore curiosità era senz’altro quello di Giorgetti. Il numero due della Lega non è stato banale e vale la pena riassumere il suo pensiero e la replica poi arrivata da Giorgio Vittadini. Giorgetti è partito contestando bonariamente il titolo del Meeting, sostenendo che se l’accento è sulla felicità, sul rendere il popolo felice, allora sì che il populismo di un certo tipo è dietro l’angolo, alla felicità occorre aggiungere la libertà.
Quindi ha puntato il dito sull’ideologia globalista, che ha preteso di governare al posto della politica e della democrazia C’è stata un’overdose di politicamente corretto, in ogni settore della vita sociale, overdose che ha scatenato la reazione del popolo. Non disdegna, Girogetti di chiamarla reazione populista, osservando che ha travolto tutte le istituzioni, anche quelle della democrazie rappresentativa. Ha preso le distanze da Gelmini che invocava la centralità del Parlamento, sostenendo che oggi i cittadini vedono nel Parlamento il luogo dell’inconcludenza.
Non è vero che la gente non partecipa, c’è partecipazione, anche se superficiale perché ridotta a mettere un like, e nessuno più legge libri per farsi un’idea approfondita.
In questo contesto vince il rapporto diretto fra il popolo e il suo capo politico. Per colpa del web è un fenomeno patologico, ma anche Berlusconi aveva capito che con le tv si poteva fare politica senza avere un partito politico alle spalle. Oggi il partito, come sa il Pd, è una zavorra, noi andiamo bene perché abbiamo un capo che sa coltivare un rapporto diretto con il popolo. Tutto bene, quindi? No, Giorgetti riconosce che c’è un tema che, dopo le esperienze negative di destra e sinistra, non ha l’attenzione che meriterebbe. Ed è quello della riforma delle istituzione democratiche. Il giocattolo si è rotto e se non lo si aggiusta rapidamente, il rischio dell’uomo forte che si impone è dietro l’angolo. A Matteo Renzi saranno fischiate le orecchie.
Se gli altri interlocutori avevano evocato i corpi intermedi come punti da cui ripartire, Giorgetti ha invece sparato a zero, sostenendo che sono in crisi, delegittimati, che, per esempio, le associazioni di categoria non rappresentano più nessuno.
E conclude citando Baumann quando sostiene che si tratta di fare il percorso inverso a quello seguito nell’epoca moderna, passare dalla società alla comunità.
Vittadini ha replicato precisando che nella visione di Giussani la felicità non è qualcosa di ridotto ai propri comodi, ma presuppone la libertà e la ricerca di qualcosa che non basta mai. E ha ricordato che tutti corrono il rischio di subire la tentazione del potere, lo ha vissuto il Meeting, e lo vive chi va al governo pensando che siccome adesso è arrivato lui tutto andrà in ordine. Se c’è questa presunzione, non c’è bisogno di aspettare il cadavere, si può essere certi che prima o poi arriverà. Ecco perché ci vuole un’educazione, qualcuno che continuamente ti richiami alla posizione ideale. I maggiori critici di CL sono stati don Giussni prima e don Carron oggi.
La politica è come una salita in montagna con la bicicletta: ha tempi lunghi, molto lunghi… L’errore è seguire lo scattista, l’uomo solo al comando.
Comunque la realtà del Meeting non è contraria al nuovo governo (lo aveva sostenuto Giorgetti), è disponibile collaborare con tutti, proprio perché ogni tentativo è limitato, collaboriamo con tutti perché non ci va bene nulla.
Chiesa e cambiamento d'epoca, la salutare scossa del card.Tagle
È la stessa biografia del simpaticissimo cardinale Luis Antonio Gokim Tagle a rendere, più di ogni discorso teorico, l’idea del cambiamento d’epoca in cui la Chiesa è immersa. Al pubblico del Meeting ha raccontato che il nonno materno era un immigrato dalla Cina, trasferito nelle Filippine perché povero e senza lavoro. Lì ha conosciuto la moglie, cattolica, ed anche lui si è convertito dal buddismo. Quando il giovane Tagle decide di farsi prete ed entra in seminario, il nonno confessa di non capire cosa voglia dire diventare prete. Al nipote raccomanda: non so cosa voglia dire prete, ma tu cerca di essere un prete buono. Commenta il cardinale: attraverso di lui, un povero immigrato dalla Cina, si è formato un prete e poi addirittura un cardinale.
Tagle racconta questo episodio biografico per rispondere alla domanda di Roberto Fontolan, del centro internazionale di CL, su come egli veda il presente e il futuro della Chiesa in Italia e in Europa. Il cardinale osserva che da almeno tre o quattro anni sente ripetere che la Chiesa in Italia è vecchia, è stanca, e Tagle piega il corpo e lascia cadere le braccia per dare meglio l’idea dello sfinimento. Se si ripete sempre un concetto, si finisce per crederci, per realizzarlo in azione. E obietta, “Ho celebrato messa a Milano, invitato dal cardinale Scola, e c’erano ventimila filippini. Questa è una Chiesa morta? Certo, se i migranti sono esclusi è morta, ma se i migranti sono inclusi è viva!”.
Altrettanto stimolanti le osservazioni di Philip Jenkins, storico delle religioni, autore di libri di grande successo tradotti in tutto il mondo. La sua tesi è che il cristianesimo non muore mai, sembra che sia morto, ma poi rinasce. La stessa resurrezione fa parte della storia del cristianesimo. In Cina il cristianesimo è stata dato per morto quattro volte e adesso viviamo nella sua quinta rinascita. Secondo alcune proiezioni nel 2050 la Cina sarà il paese con il maggior numero di cristiani. Eppure lo stesso Jenkins, gli obietta Fontolan, ha pubblicato un libro sulla storia perduta del cristianesimo, ovvero il millennio d’oro, dal V al XV secolo, della Chiesa fra Medio oriente, Africa e Asia. Quel cristianesimo è scomparso. Jenkins replica che il cristianesimo può scomparire in alcune zone, ma poi rinascere in altre, non può essere cancellato, il cristianesimo cresce e si evolve, non rimane sempre uguale a se stesso.
Certo è che l’incontro con il cardinale Tagle e con Jenkins è una scossa elettrica salutare che contribuisce a uscire dal vecchio eurocentrismo in cui noi italiani ed europei siamo ancora immersi. Uno dei tratti del cambiamento d’epoca è che la Chiesa è sempre meno europea e sempre più ha il volto dei Paesi del sud del mondo.
Jenkins porta alcuni numeri a proposito di Africa. Nel 1900 i cristiani in Africa erano 10 milioni, oggi sono 500 milioni, nel 2050, cioè fra trent’anni, saranno un miliardo. Sempre nel 2050, solo il 27 per cento dei cristiani sarà europeo. Se poi il focus è sui cattolici, scopriamo che nel 1900 erano due milioni, oggi sono più di 200 milioni, nel 2050 saranno 460 milioni. Aggiuge Jenkins: i cattolici in Africa sono di più di quelli ufficialmente registrati, sono talmente impegnati a battezzare che non hanno tempo per la burocrazia.
Jenkins ama stupire i suoi interlocutori e quindi si sofferma a parlare del caso della chiesa pentecostale nigeriana che ha avuto un autentico boom in Ucraina grazie al pastore Sunday Adelaja, emigrato dalla Nigeria. E dove si riuniscono tutte queste migliaia di nuovi fedeli? Nelle ampie strutture costruite a suo tempo per ospitare gli eventi del partito comunista. Insomma la missione storica del Pcus è stata quella di costruire le chiesa per i cristiani pentecostali nigeriani.
Non è un paradosso, spiega il cardinale Tagle, affermare che Gesù è asiatico, come afferma il titolo di un suo libro. “Ero prete nella segreteria del Sinodo per l’Asia del 1998. Ricordo Giovanni Paolo II che dopo la preghiera fissò gli occhi dei vescovi e disse: Il Signore Gesù Cristo è nato in Asia e dall’Asia sono partiti i suoi discepoli per annunciarlo al mondo”. Il cardinale quindi osserva che il modo di parlare di Gesù, non per concetti ma attraverso storie e parabole, è molto asiatico.
E da buon asiatico per spiegare cosa significhi per la Chiesa stare nell’attuale cambiamento d’epoca usa tre immagini. La prima è la porta di una casa, la Chiesa si rinnova se è una porta attraverso la quale c’è scambio fra interno ed esterno, fra la Chiesa stessa e la realtà. La Chiesa rinasce quando il Vangelo e il grido del mondo si incontrano sulla porta della Chiesa.
La seconda immagine è la tavola, il luogo attorno a cui ci si siede per mangiare e per condividere la vita, le proprie storie. La Chiesa come grande tavola dove c’è posto per tutti. Ed infine, terza immagine, la Chiesa non è un museo del passato, non bisogna stare fermi a forme sociologiche del passato, bisogna essere continuamente in cammino.