Il virus che ammorba la scuola e i suoi anticorpi

Venerdì, 06 Novembre 2020

C’è un virus ancora più grave del CoronaVirus. È più subdolo, nascosto, eppure assai più devastante. Non riguarda i corpi. Non riguarda la nostra biologia. Qui non c’entrano mutazioni, diffusioni, fattori RT di contagio. Riguarda l’anima, riguarda l’intelligenza e la volontà. Riguarda la libertà.
C’è un virus che sta uccidendo la nostra libertà, perché sta uccidendo la nostra capacità di confrontarci con la realtà, chiudendoci in una dimensione meccanica e priva di passione per le cose.

Questa pandemia è particolarmente attiva nella scuola, il luogo dove si dovrebbero crescere le anime, formare le persone, aprire le menti. Invece oggi è il luogo dove vige la potenza di questo virus occulto e non dichiarato. Eppure nella scuola ci sono forti anticorpi, che hanno permesso alla stessa di resistere fino ad ora. La scuola, malgrado sia così infetta e maleodorante, resta un luogo dove persone vive si incontrano.

Le persone che portano questi anticorpi talvolta sono i docenti. Dovrebbe essere questo il loro compito precipuo. Certamente non sempre è così. Possiamo dire che il virus, in questo secondo caso, trova la sua vittoria. Portatori sani di anticorpi, spesso, sono gli stessi studenti. Con la loro baldanzosa naturalezza, con una incredibile e spontanea energia, sparigliano spesso le carte. A loro basta poco. Una domanda, una considerazione, un gesto magari poco opportuno ma che porta tutto il desiderio di una vita vera, di una conoscenza non artefatta, di una passione non spenta nei confronti di quanto si va facendo. Basta poco, e la lezione rinasce. In questo tempo di Lockdown nella scuola sono accadute cose di grande portata profetica, per chi intenda guardarle.

Due esempi. Uno del virus ammorbante. Uno degli anticorpi più forti del virus.

In questi giorni, studenti e insegnanti si sono visti traditi nel loro sforzo di dare un senso al proprio percorso. Salvato l’anno scolastico a marzo scorso, inventando una didattica a distanza che non era dovuta da contratto, messo in piedi a settembre tutto un apparato di sicurezza per cui a scuola senza dubbio ci si sentiva in un luogo sicuro (non vi è stata diffusione del CoronaVirus tra le aule, ma semmai in altri luoghi), a causa delle mancanze di altri attori (in primis il problema dei trasporti) docenti e studenti si sono visti settimana scorsa di nuovo costretti ad una sconfortante didattica a distanza (che comunque resta sempre meglio che nulla). Dapprima per il 75 % delle classi, ora per il 100%. A fronte di questa forte e palpabile delusione, la beffa. Increduli, i docenti di numerose scuole hanno letto in circolari comprovate da normative varie, che se anche tutti i propri studenti della mattinata fossero stati destinati a casa, il prof doveva essere “in presenza”. In presenza nell’assenza. Costretto da circolari bizantine a fare lezione a distanza, ma da scuola. Così la scuola diveniva di fatto un “non luogo”.

Quegli stessi insegnanti che hanno salvato l’anno scolastico con un impegno a casa propria che non era previsto da nessun contratto e che risultava perfino illegittimo (erano tenuti a marzo a non firmare il registro, perché risulta “illegale” far lezione da casa, con conseguenza di una complicatissima procedura per assegnare voti e assenze), ecco, proprio costoro che, senza tirarsi indietro di un millimetro hanno ostinatamente voluto “far lezione”, ora vengono chiamati a una sorta di “lavoro forzato”, ovvero ad uno sforzo senza altro significato se non quello che può essere immaginato quale “punitivo”. 

Difatti, fatta salva ovviamente la possibilità di accogliere a scuola quei docenti che mancassero di strumenti, non si capisce perché mai un prof debba fare da scuola - mentre la nazione intera tenta di limitare i contatti sociali e gli spostamenti - quel che può fare con più efficacia da casa. Come era facile prevedere, per aggiungere note di grottesco a questo noir dai sapori stantii, si è subito visto come le scuole non siano affatto preparate ad accogliere l’interezza delle lezioni via web. Cadute di connessione, computer non predisposti, disturbo dato da una organizzazione oggettivamente complessa hanno portato mediamente (stima data dal racconto degli insegnanti stessi e degli alunni) a una perdita del tempo di lezione che si avvicina ad un terzo rispetto al lavoro che poteva essere fatto da casa (in certi casi anche oltre la metà).

In una classe vuota, con i ragazzi sul monitor, la domanda spontanea era se tutto questo fosse uno strano sogno. Una specie di incubo, un “sonno della ragione”. Ora qualcuno sembra essersene accorto. Paiono essere mutati i bizantinismi interpretativi. Meno male. Ma resta indelebile questa settimana di follia giuridicamente corretta (o forse no?).

Ma veniamo agli anticorpi.

Si potrebbe parlare di tante cose ma per capire quali siano gli anticorpi che salveranno la scuola, e di conseguenza l’intera società, basta un semplice episodio. Banale e inconcludente. Ma salvifico.

Due giorni fa mi accorgo che un ragazzo sta seguendo dal terrazzo. Accadeva anche a  primavera, talvolta. E, tra me e me, dicevo “fan bene, lo farei anche io se potessi!”. E magari ci usciva anche una battuta sugli Aristotelici che facevano lezione passeggiando… Ma a novembre no. Qualcosa non torna. Oggi, dalle 8 del mattino, è ancora sul terrazzo, avvolto in un pesante piumino invernale.

E allora incuriosito chiedo, “ma perché sei sul terrazzo, non hai freddo? Ci sono problemi di silenzio o di spazio in casa…?”. La risposta è stata fulminante nella sua semplicità: “Prof, mi sono appena trasferito e non ci è arrivato ancora il wi fi. Ho finito in una giornata i giga del mio cellulare, ma ho scoperto che c’è un wi fi libero qui vicino. Purtroppo prende solo da qui. Così seguo le lezioni dal terrazzo. Mi sono costruito una copertura, una tenda…  Il problema è che ieri c’era nebbia e si bagnavano i fogli! Così dopo 3 ore son dovuto entrare in casa e disconnettermi”. Sono a bocca aperta. Questo ragazzo, un normale nostro studente non particolarmente “secchione”, pur di seguire le lezioni è stato per una settimana intera ogni mattina sul suo terrazzo per 5 ore di fila. Senza dire nulla. Senza lamentare difficoltà di connessione. Senza trovare scusanti per una più che comprensibile assenza, magari autorizzata dai genitori. In questo gesto semplice, ma decisamente significativo, in questo moto della libertà del tutto personale e “disarmato”, si cela qualcosa che c’entra con la possibilità di una rinascita della scuola e della società.

Possiamo starne certi. Vinceremo il virus. E non intendo certo il Covid, che, a fronte dell’assurdità in cui siamo immersi, è poca cosa davvero (ed è tutto dire).

Emanuele Polverelli