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Quel punto bianco nel cuore. Intervista a Farhad Bitani

Martedì, 26 Gennaio 2016

Quel punto bianco nel cuore. Intervista a Farhad Bitani

“Sono cresciuto nella violenza, ho assistito a delle bestialità per anni, fin da bambino. A otto anni ho visto dei soldati violentare una donna, mi hanno dato due proiettili di kalashnikov e mi hanno mandato via senza farmi nulla, perché ero figlio di un generale mujaheddin”.


Farhad Bitani non ha ancora 30 anni, ma ha già vissuto più di una vita. La prima nell’Afghanistan della guerra civile e 2 milioni di morti, dov’era normale assistere a pubbliche lapidazioni allo stadio. “Il corano è scritto in arabo, ma era vietato tradurlo”, racconta a una platea attentissima di ragazzi del Liceo statale Serpieri di Rimini, “per cui se ti dicevano che se partecipavi alle lapidazioni ti diminuivi il peccato, ci credevi. Una volta, quando ho visto due bimbi abbracciare la loro mamma che stava per essere lapidata, ho pensato: ‘Ma se fosse la mia mamma?’, e non sono più riuscito ad andare ad assistere a questi spettacoli, anche se i miei amici mi invitavano”.
Dal 2005 si trasferisce con la famiglia in Italia. “Io non volevo venire in questa terra di infedeli, quando ho visto tutta quella gente all'aeroporto di Fiumicino ho pensato: ‘Dio dammi la forza di ucciderli tutti, così vado in Paradiso!’.


E poi cosa ti è successo che ti ha fatto cambiare vita?
La cosa grande che mi ha fatto cambiare è stato conoscere il ‘diverso’, perché io sono musulmano, nato e cresciuto in un paese musulmano, dove non avevo l’opportunità di dialogare con il diverso e dove sono cresciuto nella violenza. Entrando in dialogo con il ‘diverso’, conoscendo la sua religione, il cristianesimo, ho capito meglio la mia religione musulmana. Per questo sono cambiato. Prima portavo dentro di me un odio. Perché non vi conoscevo.


C’è stato un fatto particolare che ti ha fatto capire?
Tanti fatti, piccoli gesti. Per esempio una signora che mi ha offerto l’acqua quando piangevo, oppure come mi ha accolto la mamma di un amico che mi ha ospitato e mi ha trattato come suo figlio, mi misurava la febbre quando stavo male… Oppure quando evitavano di mettere a tavola il vino, per rispetto alla mia religione.


Tu hai vissuto delle violenze atroci in Afghanistan, all’interno di un sistema che le voleva far apparire ‘normali’, eppure, traspare anche dal tuo libro, vivevi già un disagio dentro di te, che cos’era?
In tutti quelli che nascono, anche nel paese più violento del mondo, Dio mette sempre nel cuore un punto bianco. Il percorso che tu fai ti fa accorgere di questo. In tanti oggi in Afghanistan provano disagio per quello che succede. Il governo, la costituzione, fanno parte di quella violenza, non puoi dire no, anche perché non sai quello che succede al di fuori del tuo mondo, ma dentro il cuore senti sempre il disagio.


Vuoi dire che il cuore va educato?
Sì, va educato. Infatti è il percorso che ho fatto nella mia vita che mi ha cambiato. Loro là, centinaia di migliaia di persone in Afghanistan, non hanno l’opportunità che ho avuto io.


E come possiamo dargli questa opportunità?
Non con la violenza e le armi, di certo. Quello che possiamo fare è la testimonianza della nostra vita, metter davanti a loro la nostra vita. Possiamo farci conoscere. Per educarli e lavorare su questo.
Ma è un percorso molto lungo, come quando metti un seme di un albero. Lo devi curare, ma funziona. Nel nostro paese questa educazione non è mai stata portata, per questo sembra difficile, ma non è così. Voi avete cambiato me, io sono cambiato totalmente, ed ero peggio di tantissime altre persone, allora potete cambiare tutti! Io ho imparato qualcosa del cristianesimo: mi viene in mente Don Giussani, per esempio: lui ha puntato tutto sull’educazione e il frutto di questo si vede. Sono persone grandi, come lui, come Ghandi, che possono far cambiare le altre persone. Quindi per cambiare le persone in Afghanistan, per prima cosa dobbiamo cambiare noi.


Hai timore di un ritorno dei talebani?
No, non prenderanno mai di nuovo il potere: sono creature di chi li finanzia, e sono rimasti in pochi. Adesso il rischio sono i daesh: se la situazione va avanti così, il rischio è che nascano nuovi gruppi peggio del daesh.


Questo rischio si corre se gli Usa se ne vanno dall’Afghanistan?
Non solo se gli Usa se ne vanno, ma se lasciano l’Afghanistan senza aiuto e senza lavorare sull’educazione dei giovani.


Tu hai detto che gli attentati di Parigi del 13 novembre sono stati fatti lì anche perché, in qualche modo, il laicismo di stato ha fatto fuori Dio dalla vita pubblica. Ti puoi spiegare meglio?
È importantissimo avere un’identità. Per tanti di noi l’identità viene dalla nostra religiosità, quindi anche la mancanza di Dio riduce la nostra identità. Perché in Francia e in Inghilterra accadono più attentati? Per due motivi sostanzialmente: primo la politica estera del paese, con bombardamenti anche di innocenti. Il secondo è educativo: in Francia le donne musulmane non possono indossare il chador, in questo modo tu colpisci la loro identità. I cristiani non possono portare la croce. Tutto questo ti fa crescere con un disagio profondo che può anche portare al fondamentalismo: i fondamentalisti sono proprio persone senza identità.


Perché i cosiddetti musulmani moderati stanno così spesso in silenzio di fronte a questi fatti terribili di violenza?
Ci sono tante ragioni: o per la paura, o perché non sono ascoltati dai media… Anch’io ho scritto questo libro (“L’ultimo lenzuolo bianco”, ndr) nel 2012, ma è solo dal 2015 che la gente mi ascolta. Per tre anni nessuno voleva ascoltare la mia voce! Grazie a due, tre persone e al passaparola di queste, la voce è girata e adesso in tanti hanno capito e non possono essere fermati! Possono fermare me, non quelli che stanno seguendo la mia strada. E c’è un'altra ragione ancora: i musulmani non hanno un’unica guida, non hanno il Papa e questo limita la loro libertà, perché possono aver paura di dire cose sbagliate. In Afghanistan c’è un tipo di islam, in Arabia Saudita un altro, ecc. Questo disagio ti porta a non essere ben visto dai vicini, e finisce per prevalere l’islam del più forte.


Occorre un lavoro anche su questo?
Si occorre un lavoro. Ti racconto una storia: un bambino chiede al padre che torna dal lavoro di portarlo al parco, ma lui è stanco. E così glielo chiede il giorno dopo, ma lui è ancora stanchissimo. E ancora per vari giorni. Finché il papà è costretto a promettergli: va bene, domani al 100% ti porto al parco. Ma il giorno dopo è ancora più stanco di prima e per farlo rinunciare prende una mappa, la rompe in tanti pezzi e gli dice: quando sei riuscito a metterla a posto, ti porto al parco. Pensando che non ci sarebbe mai riuscito. E così va a letto a riposare. Ma dopo poco arriva il figlio con la mappa sistemata. Il padre lo guarda stupito e gli domanda: ‘Ma come hai fatto? Tu non conosci la geografia!’ E il figlio: ‘Infatti non ho seguito il disegno della mappa, ma quello che c’è dietro: la figura di un uomo, ho lavorato su questo’. Con le piccole nostre testimonianze, noi cambiamo il mondo: i piccoli gesti e l’accoglienza di quella donna mi hanno cambiato, così come io ho cambiato centinaia di persone.(AC)


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