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La Rimini metafisica di Ondimar

Giovedì, 29 Giugno 2017

Ondimar il canto del mare è il primo romanzo del riminese Raffaello Fabbri, uscito in questo mese per le edizioni Agatanew di Foligno, euro 18,00.

1898-1918: giusto gli anni della Belle époque e dell’inferno in cui divamperà; quelli del perbenismo borghese e dello spirito anarchico che nella Romagna dà le prove migliori: la storia passa di qua e lacera la vita di povera gente. Come Anita stramazzata sotto la carica di un cavalleggere, grazie ad un cesareo improvvisato dalla levatrice Rosina sul lastricato di piazza Cavour, partorisce Usèf, uno dei tre fratellastri del romanzo, gli altri sono Pietro e Adelchi: provenienti da tre estrazioni sociali in reciproco odio, allattati alla medesime mammelle di Anna, moglie di Libero e nuora di Svaldo Morri di Borgo San Giuliano, socialista e compagno di Schinazza, anarchico e naturalista, forse un po’ troppo saggio e altruista per non sembrare un mitico hobbit. L’ignobile podestà sottrae la felicità alla bellissima Isotta innamorata del tenente Terenzi, impeccabile servitore dello Stato ma non dell’ipocrisia del potere. Altre decine di personaggi tra cui val la pena ricordare madama Ines la maitresse della Maison ruge in dialogo con Don Nicola sul silenzio di Dio di fronte alla sofferenza degli uomini, dove si gioca il rischio della libertà di ogni uomo.

E’ impossibile dipanare l’intreccio di eventi che da Rimini corre per l‘italietta giolittiana fino a deflagrare nella Grande guerra che cancellerà definitivamente il comune sentire europeo raccontato dal romanzo, dove meditazione metafisica, ricerca scientifica e passioni sfrenate si mescolano senza soluzione di continuità.

Il narratore non molla, sorprendendo il lettore ad ogni piè sospinto: è il ritmo incalzante di una sarabanda in cui l’amarezza di una tragedia infinita si affaccia alle domande della vita con l’umore della commedia felliniana. Una irriguardosa rivolta antiborghese che ama profondamente l’arcaico e il primigenio, dove l’umanità resiste anche quando si lascia sfigurare dalla vendetta più animalesca, sempre in cerca di qualcosa che non trova. Come si chiede Svaldo in uno dei punti focali del racconto,“La sera mi arrivano delle tristezze che non riesco a mandare via neppure col Sangiovese. Non sopporto che le cose finiscano … Vorrei che potesse arrivare un pezzo di tempo nuovo, dove le cose si possono rimediare e le storie che ci sembrano finite possano continuare più belle e più giuste …. Di’ Schiaza, ma us’a propri da murì, par forza? U j sarà pu un ent modi par campé!”

Un agonismo di facce e di storie rimescolato nel sangue della passione politica e sociale, in una Rimini incendiata di bordelli e suite da Grand hotel (Kursaal, Hungaria) in cui coesistono turismo aristocratico e squallore della miseria, profumi marini e umori marci di colera, si mescolano ingiustizie civili e giostre di divertimenti, storie di sacrifici e sogni futuristici - come quello del capitano Pirandello, in città per realizzare una turbina marina -, uomini in cerca di perdono e tromber, esempi di eroismo e di bassa lega, stupri ed evirazioni, caricature di comicità che sprezzano il servilismo dei benpensanti e magoni di dolore irredimibile. Come nella notte in cui Svaldo e Schinazza “stavano remando da ore discutendo del senso dell’esistenza e di dove stava andando il mondo …. si chiedevano se la rivoluzione, per cui erano vissuti …. avesse lasciato un segno”, ma “nella notte le parole dei due vecchi lasciarono solo silenzi senza risposte”. E allora “Vadeviaecul Svaldo. Questo è un mondo senza giustizia … l’Utopia noi non la vedremo, ma il nostro è un vento che non si può fermare”.

Una Rimini affacciata sul mare, dove le domande si perdono fra la nebbia o sotto una luna che richiama più di un film di Federico se non il poeta recanatese.

E poi è il momento dell’altopiano di Asiago dove si sperimenta che anche il nemico può risparmiarmi, ma anche no. Tanti protagonisti sullo stesso piano, in lotta tra dignità e turpitudine.

Oltre alla ricchezza dell’intreccio, l’altra genialità di Fabbri sta nell’osservazione dei paesaggi e delle anime, spesso accompagnata dalla profondità di similitudini, intrise di quello spirito romagnolo condensato nella sintesi dialettale, in grado come poche di esprimere caratteri, emozioni, giudizi, speranze, dolori, autoironie.

Gran bella storia, 250 pagine che si piantano nel cuore come altrettante schegge di buio, di “una notte satura di presenze misteriose che i sensi possono solo sfiorare, capaci di portare l’inquietudine fin dentro le ossa.” 

Alfiero Mariotti                                                                                                                                              


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