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La città bella secondo Zuppi (e secondo Francesco)

Sabato, 22 Aprile 2017

Come si costruisce una città bella? L’arcivescovo di Bologna Matteo Maria Zuppi per rispondere attinge al magistero di papa Francesco. E cita il numero 220 della Evangelii Gaudium: “Come sono belle le città che superano la sfiducia malsana e integrano i differenti, e che fanno di tale integrazione un nuovo fattore di sviluppo! Come sono belle le città che, anche nel loro disegno architettonico, sono piene di spazi che collegano, mettono in relazione, favoriscono il riconoscimento dell’altro!”.

Monsignor Zuppi più che un interprete è un fedele esecutore della linea di papa Francesco. Non a caso è uno dei candidati più accreditati alla successione del cardinale Angelo Bagnasco alla presidenza della Cei. Chi lo ha ascoltato nell’agosto scorso al Meeting e chi ha avuto modo di seguirlo ieri sera alla Sala Manzoni, ha certamente avuto l’impressione che, per dirla alla romanesca, è uno che “c’è” e “non ci fa”. L’insegnamento di papa Francesco appartiene completamente alla sua sensibilità, non a caso, per inciso, ha ricordato che ancora ci sono molte, troppe resistenze nella Chiesa italiana a farsi penetrare dalla rivoluzione di papa Bergoglio.

Monsignor Zuppi era stato invitato dal centro culturale Paolo VI a concludere il ciclo di incontri sulla “città che ci sta a cuore. Sul palco, insieme a lui, l’architetto Eduard Mijic,riminese di adozione, che ha collaborato alla realizzazione della nuova fiera e del palacongressi. Il tema era “Periferie. La bellezza che ancora non c’è”. Se Mijic haa svolto il tema da architetto qual è (curiosa la citazione trovata su Rimini città giardino, riferita alla zona mare di inizio Novecento), l’arcivescovo è intervenuto da pastore, esperto in umanità.

Periferie – è ben noto – è una delle parole principali del vocabolario di papa Francesco. Sono un luogo, ciò che sta oltre i confini, - ha spiegato monsignor Zuppi – e sono le periferie esistenziali, anziani, stranieri, senza fissa dimora, malati. Sono i cosiddetti “invisibili”, anche se da un certo punto di vista sono molto visibili, li abbiamo sempre sotto gli occhi. Il papa ci chiede di superare i confini e di andarci, anche se ancora ci sono molte resistenze a seguire Francesco”.

Monsignor Zuppi ha fatto esperienza sul campo, per alcuni anni è stato parroco a Torre Angela, una delle borgate di Roma, 70 mila persone, cresciuta completamente abusiva, tanto da attirare l’attenzione di un’università tedesca. Un luogo dove manca una piazza, dove quindi c’è enorme povertà di relazioni fra le persone. Non caso il sociologo Giuseppe De Rita aveva detto che Roma come città non esiste più. “In queste situazioni la Chiesa ha rimarcato Zuppi – ha la responsabilità di costruire la piazza, non in senso fisico ma come relazioni. Deve favorire il dialogo, la cultura dell’incontro, l’amicizia sociale”. Il rischio opposto è quello di chiudersi nei propri confini, di considerare le nostre comunità come un rifugio. Emblematica, da questa punto di vista, la bellissima chiesa realizzata dall’architetto Richard Meier a Tor Tre Teste, un esempio portato dall’architetto Mijic. Un capolavoro dal punto di vista architettonico (“Però molto fredda come chiesa, sembra un autosalone”, ha osservato Zuppi), ma con il terribile “difetto” da essere recintata. Un simbolo plastico di ciò che non è la “chiesa in uscita” predicata da papa Francesco. “L’identità non è contrapposizione, ma relazione. Bisogna accettare la sfida dell’incontro”.

La conclusione dell’arcivescovo è nel segno dell’Evangelii Gaudium, il documento di papa Francesco “che ancora tutti dobbiamo studiare nei prossimi anni, come è stato detto a Firenze”. Non bisogna avere paura, ma essere pronti a nuove sintesi culturali: “È indispensabile prestare attenzione per essere vicini a nuove forme di povertà e di fragilità in cui siamo chiamati a riconoscere Cristo sofferente, anche se questo apparentemente non ci porta vantaggi tangibili e immediati: i senza tetto, i tossicodipendenti, i rifugiati, i popoli indigeni, gli anziani sempre più soli e abbandonati, ecc. I migranti mi pongono una particolare sfida perché sono Pastore di una Chiesa senza frontiere che si sente madre di tutti. Perciò esorto i Paesi ad una generosa apertura, che invece di temere la distruzione dell’identità locale sia capace di creare nuove sintesi culturali”.


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