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Il Casanova di Fellini. Ieri e oggi (1976-2016)

Venerdì, 02 Dicembre 2016

Martedì 6 dicembre 2016, alle ore 9,30, nella sala degli Atti parlamentari della Biblioteca del Senato, piazza della Minerva 38, avrà luogo un convegno che inaugurerà la mostra "Il Casanova di Fellini", organizzato da Gérald Morin e Rosita Copioli, in occasione dei quaranta anni dall'uscita del film Casanova In Italia.
La Mostra, visitabile dal 6 al 21 dicembre, è composta di 120 documenti tra foto, disegni, manifesti e libri della collezione di Gérald Morin (assistente alla regia e collaboratore personale di Fellini), ed è suddivisa in sei nuclei distinti, ciascuno comprendente foto e disegni (di Fellini), le cui didascalie permettono al visitatore di apprezzare le immagini dell’epoca d’oro del cinema italiano. Qui di seguito, una riflessione di Rosita Copioli sulla figura di Casanova vista da Fellini.

 

Terzo nel trittico autobiografico che comprende Roma e Amarcord (Morin), il film ispirato alle Mémoires dello scrittore veneto, non è una ricostruzione del Settecento alla Kubrick, che lo stesso anno girava Barry Lindon. Ma Fellini, pur pensando al XVIII secolo più come sfondo per «un valore psicologico», pur credendo che Casanova non ne sia rappresentativo, in realtà dipinge un affresco della disfatta dell’illuminismo nel momento dell’acme, alla vigilia della Rivoluzione. «Il più bell’affresco della storia del cinema» e «una vera e propria psicanalisi dell’umanità», lo definì Simenon: in Fellini, «come in Goya, dietro le risate c’è sempre la morte». Il suo affresco è «un tuffo vertiginoso nelle profondità umane».


In quell’affresco simbolico la figura di Casanova rappresenta una sintesi mirabile di sensi. Incarna sia il rischio dell’artista sia il rovescio della medaglia delle qualità dell’italiano proiettati nell’attualità. «Il ritratto psicologico dell’artista» che recita sempre una parte sulla scena della sua vita, in preda alla vertigine del vuoto, si fonde con la mediocrità elevata ad eccellenza e la compulsione sessuale del seduttore per antonomasia, perfino del vitellone attaccato a un piacere adolescenziale, un edonismo poi, di civiltà dei consumi. Casanova esalta le arti e la poesia senza essere artista e poeta, vanta frequentazione esoterica senza essere esoterista, millanta affari diplomatici e politici senza essere né diplomatico né politico, ostenta ascendenze nobilissime, senza la possibilità di accreditarle fino in fondo, inscena la teatrale capacità di vivere, senza la capacità di tradurla nel teatro della letteratura. Fellini satireggia il costante carattere masturbatorio delle passioni culturali e la cialtroneria di chi ha avuto successo con la sua «Iliade erotica». Grazie alla superficialità del mondo moderno essa diventa più memorabile della Gerusalemme liberata, osserva Stephan Zweig.


Riguardo all’artista, Fellini disse con grande lucidità: «Perché in realtà è un film sull’inutilità della creazione, sul deserto arido in cui il creatore fatalmente si ritrova dopo essersi ingegnato a vivere soltanto con le sue marionette, o con le sue parole. Dimenticando di lasciar esprimere il lato animale che è parte integrante del suo essere. Non è questo il pericolo? Casanova, alla fine, divenuto lui stesso una marionetta, si fissa meccanicamente nella contemplazione senza speranza del suo universo femminile... È anche il simbolo dell’artista bloccato nella dimensione nevrotica dell’illusione creatrice. ... È stato allora, evidentemente, che ho capito il senso della profonda avversione che provavo nei confronti di Casanova. Questo film che rifiutavo in modo così violento doveva segnare una linea di demarcazione, ma nella mia vita, non nella mia carriera. Dopo questo film bisognava che la parte di me versatile e incostante, la parte di me indecisa, eternamente tentata dai compromessi, la parte di me che non vuole diventare adulta - bisognava che questa parte di me finalmente morisse. Per me il film era proprio questo: avevo varcato un confine e mi avvicinato all’ultimo versante della vita. Ho cinquantasette anni, la sessantina è già lì che mi aspetta. E forse inconsciamente ho messo nel film tutte queste ansie, tutta la paura che mi sento incapace di affrontare. Forse il film si è nutrito della mia paura...».


Riguardo all’italiano (al personaggio dell’italiano tipo), Fellini sostenne che Casanova era un archetipo mitologico italiano, convenzionale e indistinto, senza mistero, senza innocenza, di una mediocrità furbastra, qualcuno che non nasce mai e resta allo stadio di aborto. Aveva orrore dell’uomo nato morto, della crisalide che non sboccia in farfalla, del gelo che imprigiona la sua decadenza, nella danza sul ghiaccio con una bambola meccanica, prima di scendere nel regno delle ombre, una terra di nessuno indefinita, vicino agli inferi. «Chiuso nella sua umida placenta, il mio Casanova sarà un mitomane che non ha mai provato autentiche passioni, e che ora, giunto al tramonto, quasi rispondendo irritato alle domande di un molesto intervistatore, tenta di riscrivere con l’antica spavalderia le proprie memorie, ma con risultati macabri e disastrosi. Nonostante quella sua golosità da pescecane, la sua vita è infatti svolta sotto ghiaccio... Casanova, nella sua vita convulsa da insetto, da baco da seta che si agita continuamente e freneticamente nel suo bozzolo, non diviene mai farfalla...


È un burattino che guarda il mondo con occhi di pietra. Nel suo film non c’è storia, se non quella a cui il cinema obbliga per quel minimo di convenzione che neanche il regista più geniale riuscirà mai a eliminare. Intorno a lui non succede niente, tutto quel che si vede nel film, è ciò che Casanova vede all’interno dei suoi occhi impietriti, dentro, non fuori. Per questo ho fatto l’impossibile perché solo Casanova avesse una sua lignea individualità; e degli altri personaggi nessuno. Insomma, Casanova è Pinocchio, ma un Pinocchio che non diventa mai uomo».


Casanova è un essere che comincia a diventare interessante solo quando diventa vecchio, e allora deriso dai camerieri del conte di Waldenstein, impennacchiato come un vecchio pagliaccio, «quando la sua vita farraginosa, tutta roboante, è ridotta a una carcassa traballante, ammalata, ecco, può darsi che allora avrebbe suscitato un pochino più di simpatia, di solidarietà».
Gérald Morin testimonia che quando girarono nell’ambiente della mansarda al castello di Dux la scena della morte di Casanova - solo, invecchiato, disilluso, si ritira sulla sua seggiola davanti al tavolo di lavoro coperto di manoscritti, scenari di un’altra epoca - tutti i membri della troupe presenti ebbero l’impressione che Fellini girasse in anticipo la propria morte. E più d’uno, macchinisti ed elettricisti compresi, avevano le lacrime agli occhi.


È la scena che si conclude con il sogno della danza sul ghiaccio, ma è preceduta dalla definitiva incomprensione per il suo essere fuori tempo, con la recita del grande pezzo della follia d’Orlando dell’Ariosto, l’Ariosto che da secoli aveva dominato l’immaginazione, la poesia, la cultura dell’intera Europa. Una ragazza della nobiltà non trattiene il riso. Tutto in lui è anacronistico, teatrale, pagliaccesco. Casanova ha disceso lentamente la vasta scalinata per discendere nell’agone, si interrompe offeso, una maschera disgustata e amarissima, e lentamente, dolorosamente si rigira con un inchino, risale le scale fino a sbucare nella soffitta, dove lo attendono le pareti coperte di libri, la scatola aperta con l’uccello meccanico malandato, una revêrie di morte. L’ultimo atto delle degradazioni si è compiuto. Non è senza ragione, che la mansarda del bibliotecario sotto la neve di Dux sia un’immagine estrema del rifiuto del sapere di quei libri, delle loro immagini, di quella civiltà che hanno difeso senza potere salvarla. Un’immagine dove Fellini può identificarsi sia per l’angoscia di un passaggio di età, sia per la consapevolezza del rapido crollo d’interesse, che tra pochi decenni potrà riguardare anche la sua arte.


Rosita Copioli


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