Case famiglia: attacchi, leggi non chiare e autentiche storie di accoglienza

Giovedì, 25 Luglio 2019

L'economista Stefano Zamagni parla da alcuni mesi di attacco contro il terzo settore, sostiene che viviamo in un'epoca di aporofobia, cioè di paura del povero. Nel mirino del capo della Lega Matteo Salvini, dopo i migranti e le associazioni che li accolgono, sono entrate le case famiglia, accusate di fare business sulla pelle dei minori. I gravi fatti di Bibbiano lo hanno spinto a rilanciare una proposta che per la prima volta ha espresso nel 2015: una commissione parlamentare di inchiesta sulle case famiglia.

Davvero le case famiglia sono diventate un pericolo pubblico? Sembra che per la prima volta il termine sia stato usato in Toscana alla fine degli anni Sessanta, è indubbio però che la casa famiglia sia una delle geniali intuizioni di don Oreste Benzi, che aprì la prima a Coriano nel 1973. Oggi le case famiglia della Comunità Papa Giovanni XXIII sono 249 sparse in quasi tutte le regioni italiane e accolgono circa 2.500 persone, non solo minori, ma anche anziani, disabili, persone comunque bisognose di un ambiente famigliare. Per don Benzi la casa famiglia è una sorta di famiglia allargata dove i genitori, oltre ai loro figli naturali, ne accolgono altri, anche insieme ad adulti in difficoltà. La casa famiglia è il paradigma della condivisione diretta, ventiquattro ore su ventiquattro. Non c'è casa famiglia, secondo don Oreste, se è gestita da operatori professionali che, dopo aver svolto il loro turno, tornano a casa. Un'esperienza i cui positivi contorni sono stati portatiti sul grande schermo dal film Solo cose belle di Kristian Gianfreda,

Negli ultimi decenni il nome casa famiglia è stato utilizzato da altre realtà che però non avevano la caratteristica della presenza di genitori presenti in modo stabile. È la ragione per cui, da un certo momento in poi, il sacerdote riminese, in articoli e conferenze, aveva cominciato a parlare di “vere case famiglia”, per distinguerle da quelle che, ai suoi occhi, non lo erano ed erano configurabili piuttosto come mini istituti. Le “vere case famiglia”, proprio perché fondate sull'amore generativo di una coppia di genitori, non potevano in alcun modo essere assimilate ad altre strutture, tanto meno a quelle sospettate di fare del business.

Un equivoco, già presente quando il sacerdote era in vita, che oggi, di fronte ad accuse generiche e senza le necessarie distinzioni, rischia di gettare un pericoloso e ingiusto discredito contro chi pratica l'accoglienza come vocazione e stile di vita. Giovanni Paolo Ramonda, presidente della Papa Giovanni XXIII, ha risposto alla campagna di Salvini con una sfida positiva: “Venga a visitare una nostra casa famiglia, venga e rimanga anche a dormire una notte, capirà molte cose”.

Se l'equivoco permane e si sviluppa grazie ad aggressive campagne di demonizzazione, lo si deve anche al fatto che a livello legislativo non c'è chiarezza. La legge sui minori, quella che disciplina affido e adozione, parla genericamente di comunità famigliari. Un decreto ministeriale del 2001, il 308, in applicazione della legge 328, ha assegnato alle Regioni il compito di definire i requisiti minimi di funzionamento delle strutture di accoglienza. Ogni Regione, quindi, ha legiferato secondo i propri criteri, e ciò che è vero in Calabria non lo è in Lombardia. Esiste anche il Nomenclatore, ovvero lo strumento usato a livello nazionale per definire allo stesso modo i servizi. Nel Nomenclatore è contemplata la tipologia della casa famiglia multiutenza (cioè non solo minori, ma anche anziani, disabili, ecc.) “come quelle della Papa Giovanni XXIII”. In realtà fra le caratteristiche della casa famiglia pensata da don Oreste Benzi non c'è solo la multiutenza, ma anche la presenza stabile della coppia genitoriale. “Ogni Regione si comporta con propri criteri. – spiega Mauro Carioni, che da anni segue le pratiche per il riconoscimento giuridico delle case famiglia – Ad alcune non interessa che i responsabili siano professionalmente qualificati (psicologi, educatori professionali), anzi apprezzano che ci sia questa pratica della condivisione diretta. Altre invece chiedono che accanto ai genitori ci sia un operatore qualificato che garantisca per loro”. In alcune Regioni fa inoltre fatica a passare che una casa famiglia non sia solo per minori, ad ogni disagio sociale deve corrispondere una diversa struttura. Secondo Carioni questa mentalità dipende dal fatto che si applicano ai servizi sociali i principi di standardizzazione propri dell'organizzazione economica. “La Regione dove le nostre case famiglia sono pienamente riconosciute è la Calabria. Sono comunque riconosciute anche in Piemonte, Veneto, Emilia Romagna, Marche e Lazio. Molise e Umbria ci hanno riconosciuto solo con limitazioni. In Toscana siamo in sperimentazione da dieci anni. In Lombardia sono ammesse sperimentazioni solo Comune per Comune”.

Una situazione a macchia di leopardo che certo non aiuta a fare chiarezza, come da anni chiede la Comunità Papa Giovanni XXIII.

L'altro tema delicato è il presunto business. Nelle case famiglia fondate da don Benzi la retta media che viene percepita è di 53 euro al giorno. Se poi si considerano anche gli accolti senza retta (il 45 per cento) la media scende a 28 euro al giorno. “Anche negli affidi famigliari – spiega Carioni si va da un minimo di 300/400 euro al mese fino a 600/700. Mi pare che non ci sia il margine per nessun business, solo dei rubagalline possono pensare di lucrare. Mi pare che il business si possa fare solo in strutture con grandi numeri, per cui si può intervenire sugli stipendi, sul vitto, e così via. Non certo nelle case famiglia”.

I numeri dicono anche che non siamo in presenza di un traffico di minori, che non esiste una emergenza affidi. In Italia (dai 2014) i minori (0-17 anni) fuori dalla famiglia di origine sono 26.420, contro i 138.269 della Francia, i 125.841 della Germania, i 69.540 dell’Inghilterra e i 32.682 della Spagna.

Se ci sarà una commissione di inchiesta, è auspicabile che faccia una vera chiarezza, distinguendo dagli abusi che anche in questo come in altri ambiti sociali vengono perpetrati, da autentiche esperienze di accoglienza che sono una ricchezza per la società e che sarebbe deleterio infangare, gettando via il bambino con l'acqua sporca.

Documento. Giovanni Paolo Ramonda. "Serve una rete per proteggere i minori"