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Buccellati: In Siria si combatte ai confini del tempo

Venerdì, 17 Giugno 2016

Intervista all'archeologo Giorgio Buccellati che, insieme alla moglie Marilyn, ha scoperto e lavorato 30 anni agli scavi di Urkesh,
una delle città più antiche del mondo, oggi a soli 60 km dal confine con i terroristi dell’Isis.


“Venga all’incontro dopo, vale la pena sentire Padre Ibrahim” Si rivolge all’albergatore prima di salire in camera a prepararsi. “Purtroppo non posso, devo restare in hotel a lavorare, mi racconterà”. Insieme al marito Giorgio e a padre Ibrahim Alsabagh, parroco francescano di Aleppo, Marilyn Kelly-Buccellati interverrà all’incontro sul tema 'Siria. Salvare la memoria per ricostruire il futuro. Adesso', organizzato dalla Fondazione Avsi, il centro culturale Portico del vasaio e il comitato Nazarat.
Colpiscono l’umiltà e la sincera curiosità di questa coppia di archeologi che ha da poco festeggiato i 50 di matrimonio, 30 dei quali passati a lavorare agli scavi di Urkesh, nella Siria nord-orientale. Città del popolo urrita, tra le più antiche del mondo: risale infatti al 3500 avanti Cristo. Dal 2011, da quando in Siria è scoppiato uno dei più terribili conflitti del nostro tempo, i coniugi Buccellati non possono più seguire di persona la loro più grande scoperta. Ma non l’hanno abbandonata, continuano infatti a seguire, passo dopo passo, ogni giornata di lavoro dei colleghi archeologi e degli operai, finanziandoli e consigliandogli su come preservare il sito, “non tanto dalla guerra, che sarebbe impossibile”, quanto dalle intemperie, come la fitta neve invernale.


La guerra ha reso anzi più stretti i rapporti, nonostante la distanza. “Una delle cose commoventi è che ci danno una carica umana inaspettata”, racconta commosso Giorgio, “abbiamo iniziato come archeologi e scoperto una serie di conseguenze del fare archeologia che sono davvero sorprendenti. Quello che abbiamo visto è che cercando di rendere rilevante il reperto si ottiene una risposta emotiva profondissima. I nostri ritrovamenti sono cosi antichi che non appartengono a nessuna tradizione contemporanea: non sono arabi, né armeni, né siriaci o curdi. E non sono neanche così spettacolari come il Colosseo o le Piramidi. Però hanno grande importanza e quindi abbiamo spiegato alle persone che vivono lì che li devono proteggere. La risposta è stata straordinaria, perché si sono profondamente identificati con questo passato, al punto che ora, dopo cinque anni di assenza, manteniamo un rapporto molto stretto e continuo di lavoro. Loro sono sempre presenti, noi lo siamo altrettanto, nel senso che li sosteniamo anche finanziariamente, ma soprattutto con suggerimenti e anche mostrandogli che siamo vicini, che consideriamo anche noi questi beni culturali importanti”.


Perché i terroristi dell’Isis vogliono distruggere l’archeologia?
“La tragedia del terrorismo culturale dell’Isis mette in luce la controparte, in sostanza, quello che facciamo noi. Vogliono appropriarsi di un territorio distruggendone il passato. Non c’è più, secondo l’Isis, l’identità preislamica: quindi la distruggono. Quello che noi diciamo, invece, è che questa identità preislamica, precristiana e ‘pre tutto’ in sostanza, è invece una dimensione importante della loro attualità, perché è il loro territorio: tutti siamo legati al territorio dove siamo nati e cresciuti, non si tratta solo del paesaggio, ma anche del paesaggio culturale. Noi abbiamo offerto invece loro questa possibilità di avere un senso di identità nel paragone con il proprio passato. Un’altra dimensione importantissima di questo è la dimensione culturale e politica, che tutti i siriani hanno in comune: opposizione e governo, curdi e arabi, cristiani e musulmani. Siamo appena stati, Marilyn e io, a un convegno dell’Unesco a Berlino, dov’erano presenti membri dell’opposizione e del governo, e dove una delle cose che sono state dette è che, nonostante le divisioni politiche che hanno, vivono una profonda identità culturale tra loro. Ecco, l’archeologia non è una torre d’avorio, ma è qualcosa di estremamente importante per la gente, ha una grande rilevanza”.


In cosa consiste maggiormente questo patrimonio culturale comune?
“Nell’architettura innanzitutto. Anche se non si tratta di edifici spettacolari, i siti archeologici sono molto importanti, soprattutto se spiegati bene, come noi abbiamo sempre fatto, mostrando anche il senso della profondità temporale. Come facciamo a sapere che un oggetto è di 6000 anni fa, infatti? E poi ci sono gli oggetti che vengono esposti nei musei. Una delle cose più belle della Siria è che anche le città più piccole, di venti-trenta mila abitanti, hanno dei centri culturali molto attivi, con biblioteche, corsi per la preservazione dell’eredità intangibile di oggetti, vestiti. Anche tradizioni come la poesia sono sentite molto più che da noi: organizzano anche presentazioni dove la gente del posto legge i poemi o mette in mostra i propri quadri”.


Questo succede anche oggi, con la guerra in corso?
“Sì, infatti una delle cose che ci ha commosso di più è che nel gennaio del 2015, poco più di un anno fa, sono riusciti anche a mettere in piedi una mostra. Elias Suleiman, direttore delle Antichità della Provincia di Qamishli, era venuto al Meeting nel 2014 per vedere la nostra mostra (‘Dal profondo del Tempo: all’origine della comunicazione e della comunità nell'antica Siria’, ndr) e gli è piaciuta così tanto che ne ha voluta fare una anche in Siria, nella sua città che si trova a circa 60 km dal confine con l’Isis, senza barriere di alcun tipo. Hanno fatto questa mostra, noi li abbiamo aiutati trovando i fondi, le foto, loro hanno tradotto i testi in curdo. Mi pare fossero 21 pannelli, che sono stati esposti in un loro centro culturale. In seguito li hanno anche portati in giro nelle altre piccole città della zona con questi camioncini. È diventata una vera e propria mostra itinerante”.


Com’è attualmente la situazione degli scavi seguiti da voi a Urkesh?
“Una cosa che faremo vedere stasera all’incontro, ed è incredibile, è che ci sono tuttora delle visite: abbiamo le foto per esempio di un gruppo, il 13 maggio scorso, che è andato a vedere gli scavi, saranno stati una ventina di giovani universitari… Si facevano anche i selfie! Un’altra piccola cosa che facciamo è vendere qui in Italia i loro prodotti artigianali, in particolare le bambole realizzate da alcune donne. Anche questo è bellissimo perché, innanzitutto, gli permette una piccola entrata, ma soprattutto dà loro il senso della dignità: fanno qualcosa che a noi interessa. Tra l’altro paghiamo i nostri operai che ci mandano i resoconti delle ore che lavorano e per ognuna segnano quello che fanno. Ci tengo molto a questo perché dà loro un senso di dignità: lavorano per cose abbastanza importanti da poter essere pagate”.


Khaled Al-Asaad, storico direttore degli scavi di Palmira, è stato torturato e ucciso dall’Isis quasi un anno fa, proprio perché non ha voluto cedere a questo terrorismo culturale di cui parlavamo prima. Possiamo definirlo un martire della memoria. Voi eravate amici, che ricordo avete?
“È un ricordo vivissimo, Marilyn e io lo abbiamo conosciuto nella nostra seconda luna di miele, cinquant’anni fa. Ci eravamo sposati ad aprile, ad agosto siamo andati a Palmira, eravamo gli unici stranieri in quel periodo. Siamo stati un mese per una ricognizione nella steppa, li attorno. Tutto questo paesaggio che si vede oggi nelle immagini dell’Isis è quello che noi abbiamo percorso giornalmente per studiare i siti archeologici. Avevamo appena iniziato la carriera universitaria, lui quella alla sovrintendenza. Eravamo i suoi ospiti, quindi siamo diventati amici e da allora siamo sempre andati a trovarlo quando andavamo a Palmira, anche con ospiti, perché è una città straordinaria. Ed è stato quindi un colpo, anche personale, molto duro: vedere questa brutalità e questa volontà di impossessarsi della memoria è terribile. È una forma di terrorismo nuova, neanche quello dei vandali era così, era forse più casuale, ora è così violento e crudele... Anche l’uccisione di Khaled è stata più un voler distruggere quello che lui rappresentava: secondo la loro logica non ci può più essere qualcuno che crede nell’archeologia”.


Rimini gli ha dedicato il giardino interno del Museo della città.
“Oh che bello! Dobbiamo andare assolutamente a vederlo e raccontarlo agli amici in Siria”.


Lei prima ha detto che questa distruzione da parte dell’Isis dei siti archeologici, paradossalmente, mette di più in luce il valore del passato. Può spiegare meglio questo concetto?
“Quasi tutte le persone con cui parlo avrebbero voluto fare l’archeologo e non lo storico, perché l’archeologia ha sempre qualcosa di tangibile, di concreto, che testimonia un passato vissuto. Quindi è più facile da capire rispetto a un documento di archivio, o a una ricostruzione astratta della storia. L’archeologia è una testimonianza, quindi distruggerla vuol dire far fuori la testimonianza del valore del passato, abolirla. D’altro lato identificarsi con l’aspetto tangibile del proprio passato, significa ritrovarsi in un paesaggio concreto e vivo. Pensiamo alle nostre città, per esempio: Rimini ha sofferto molto la distruzione della guerra come Milano, Firenze molto meno. Visitando città come Firenze o come Siena si può vivere ancora un’integrità della continuità con il passato. Ci si identifica con questa realtà visiva e tattile in un modo che nient’altro ci può dare.
Per questo l’archeologia è una dimensione così forte della vita”.
Alessandro Caprio