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Evasori o tartassati? Uno studio spiega come i riminesi lavorino per il fisco

Venerdì, 20 Novembre 2015

5bEvasori o tartassati? Uno studio spiega come i riminesi lavorino per il fisco

 

 

Siamo un popolo di tartassati e siamo un popolo di incalliti evasori. Per il principio di non contraddizione di aristoteliana memoria, le due cose non dovrebbero stare insieme. E invece è così. Probabilmente sono le due facce della stessa medaglia. Proprio perché la pressione fiscale raggiunge livelli umanamente insostenibili, chi può cerca di evadere quanto può (magari zero il lavoratore dipendente), qualcosina il piccolo lavoratore autonomo, probabilmente molto di più chi riesce a saltare indenne nella giungla del fisco.

 

Le considerazioni sono dettate dallo studio sulla pressione fiscale sui redditi da lavoro dipendente e autonomo nella provincia di Rimini che oggi ha presentato la Fondazione dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili di Rimini.

Uno studio che ha l’ambizione di mettere allo scoperto la ‘bugia fiscale’ secondo cui, nella classifica della “pressione fiscale ufficiale”, l’Italia al quinto posto in Europa con il 43,5%, mentre in quella della “pressione fiscale effettiva” è assolutamente prima con il 52,2%, distanziando di oltre 2 punti percentuali la seconda, rappresentata dalla Danimarca.

Al professor Giuseppe Savioli, Presidente della Fondazione, è stato più volte chiesto di spiegare come stanno o non stanno insieme evasione e pressione fiscale insostenibile. Si è limitato a constatare che si tratta di due fenomeni diversi: “L’evasione c’è, è un dato inconfutabile, ma qui stiamo parlando di paga le tasse e quanto le paga”.

 

Per analizzare il reale impatto del fisco, lo studio ha inventariato le oltre 100 tasse esistenti in Italia (nazionali e locali) e le ha ‘incrociate’ con gli stili di vita e le ipotesi di consumo desunte da dati ISTAT relativi al nostro territorio, allo scopo di individuare il carico fiscale ‘inconsapevole’ a cui i cittadini sono quotidianamente sottoposti.

Lo studio ha innanzitutto immaginato due contribuenti tipo, entrambi lavoratori dipendenti, residenti nel Comune di Rimini, con un nucleo familiare di tre persone. Le mogli fiscalmente non sono a carico poiché percepiscono redditi superiori a 2.840,25 euro; l’unico figlio frequenta l’università e possiedono un’autovettura di media cilindrata (1.400 cc). Sono proprietari della casa dove risiedono ed hanno discrete capacità di risparmio (10%) del reddito prodotto annualmente.  

 

Il primo contribuente, Mario, è un impiegato con un reddito medio mensile netto in busta paga di 1.300 euro. Fra imposte dirette e indirette (quelle che inconsapevolmente paghiamo quando beviamo un caffè o compriamo un chilo di pane), la pressione tributaria complessiva che deve sopportare supera il 51%. Ciò significa che lascia ogni anno allo stato (e agli altri enti impositori) 12.600 euro circa. Mario devolve per prelievi fiscali ben 1.050 euro al mese del proprio reddito, mantenendo per sè e la propria famiglia solo 990 euro circa. Quindi Mario lavora ben 188 giorni all’anno del proprio tempo per pagare le imposte e solo il resto per avere reddito spendibile. Lo scorso anno i giorni erano 187. In altri termini Mario lavora sino a luglio inoltrato lavora per pagare il fisco.

 

L’altro contribuente tipo, Giovanni, è un dipendente con mansioni più qualificate, ha un reddito medio mensile netto in busta paga di 2.500 euro. La pressione fiscale nel suo caso sfiora invece il 54,5%. Del suo reddito spendibile di circa 2.500 euro mensili, lascia ogni anno allo Stato (e agli altri enti impositori) circa 30.700 euro.

Significa che Giovanni devolve, per prelievi fiscali, circa 2.560 euro al mese del proprio reddito, mantenendo per se e la propria famiglia solo 2.140 euro.

Giovanni lavora ben 199 giorni all’anno per pagare le imposte. Lavora cioè fino al 20 luglio per pagare il fisco.

 

Se i lavoratori dipendenti se la passano male, le cose vanno peggio per gli autonomi. Il contribuente tipo, in questo caso lo chiamiamo Marco trae dalla propria attività (commerciante, artigiano, ecc.) un reddito netto (utile d’impresa) pari a quello di Mario: 24.500 euro.

Assumendo le stesse ipotesi di consumo, con pari reddito disponibile emerge come la pressione fiscale complessiva giunge per lui al livello incredibile del 62,7% (circa due terzi!). E, avvertono gli autori dello studio, per carità di patria non sono state considerate le singole imposte che il piccolo imprenditore ha già assolto nello svolgimento della propria attività d’impresa quali, ad esempio, il diritto annuale di iscrizione alla CCIAA, il contributo obbligatorio al CONAI, l’imposta di bollo sui libri contabili, eventuali tasse ed accise su carburanti, energia elettrica, assicurazioni ed altro utilizzate per lo svolgimento della propria attività e neppure l’IRAP.

Applicando a lui lo schema visto per gli altri, risulta che Marco lavora ben 229 giorni all’anno del proprio tempo per pagare le imposte, cioè fino al 20 agosto. Solo quando torna dalle ferie comincia a lavorare per sé e per la propria famiglia.

 

“Ciò che lo studio rileva – commenta il professor Giuseppe Savioli – è una pressione fiscale che umilia le persone ed il loro lavoro. Ai redditi da dipendenti, abbiamo aggiunto quest’anno una rilevazione sull’impatto del fisco su un reddito da lavoro autonomo. Ne esce un quadro ancor più deprimente, nel quale è impossibile trovare qualsiasi motivazione per accollarsi il rischio dell’avvio di nuove attività imprenditoriali”.

 

Il professor Savioli osserva che tale risultato si determina anche per il fatto che, mentre cala la produzione del reddito a causa della crisi, resta invariata la spesa pubblica. Lo Stato (e gli altri enti pubblici, compresi i Comuni) non fanno come le virtuose famiglie che, quando calano le entrate, si affrettano a tagliare le spese. In effetti, basta vedere che fine hanno fatto i vari commissari alla spending rewiew chiamati dal governo.

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