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DONNA FATALE. ELISABETTA ALDOBRANDINI E PANDOLFACCIO SULLA PALA DEL GHIRLANDAIO/1

Sabato, 03 Marzo 2012

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DONNA FATALE. ELISABETTA ALDOBRANDINI E PANDOLFACCIO SULLA PALA DEL GHIRLANDAIO/1


Il compimento della grande ricerca dei Tonini sulla storia riminese (fine sec. XIX ) e l’affiorare di una civiltà pittorica dimenticata negli affreschi trecenteschi nella chiesa di S. Giovanni Evangelista (1916), avviarono un periodo di riscoperte, nel quale la città di Rimini, specialmente negli anni Venti del XX secolo, si riappropriò di memorie perdute, facendo emergere la coscienza di momenti che, ancorché lontani nel tempo, furono quelli per diversi aspetti più rilevanti nella sua storia.


In tale contesto di riappropriazione di antiche memorie, nel 1924, Pompeo Felisati, valente maestro restauratore, fu incaricato di occuparsi di una pala quattrocentesca, proveniente in origine dalla chiesa di S. Domenico (distrutta nel 1816), già attribuita dal Vasari (“Vite....”, metà XVI sec.) al Ghirlandaio e probabilmente terminata dalla bottega pittore fiorentino nel 1494.


Al restauratore, come a tanti che l’avevano osservata per secoli prima di lui, l’opera appariva come era stata descritta dall’autore delle “Vite”, ovvero “con tre figure bellissime e con istoriette di sotto; e dietro con figure di bronzo, finite con disegno ed arte grandissima”. Le “tre figure” erano in effetti quelle di S. Sebastiano, S. Vincenzo Ferrer e S. Rocco, santi invocati in caso di pestilenze, tuttora visibili nella parte superiore del dipinto.
Quando tuttavia Felisati, seguendo alcune tracce che s’intravedevano nella pittura, compì alcuni saggi, progressivamente apparvero volti e sembianze di personaggi occultati da una patina di colore eseguita in un tempo di poco successivo alla realizzazione da parte della bottega fiorentina.


Fu informato della cosa lo storico Aldo Francesco Massera che non ebbe dubbi nell’identificare i “nuovi” personaggi nell’ultimo signore di Rimini Pandolfo IV Malatesta, assieme alla madre Elisabetta Aldobrandini, al fratello Carlo, nonché alla moglie Violante Bentivoglio; in tal modo, quelli che sino allora erano stati solo nomi scritti su documenti e cronache, acquisivano fattezze di persone, così come erano state ritratte dal pittore alla fine del Quattrocento.
Sulle ragioni della ridipintura, Massera propose senz’altro la damnatio memoriae, ovvero l’intenzione di cancellare il ricordo di Pandolfo, che per i suoi misfatti, fu appunto ricordato come Pandolfaccio.


In verità, sebbene recentemente siano state proposte altre ipotesi sulla cancellazione della famiglia malatestiana, si può affermare che la scena riscoperta, per certi versi, abbia cristallizzato proprio i protagonisti dell’inizio della decadenza riminese, durante la quale la città, persa la propria autonomia, avrebbe ricoperto un ruolo sempre più marginale negli avvenimenti che interessarono la penisola italiana.
Tant’è che, ricordando che l’opera fu compiuta nel 1494, possiamo citare Cesare Clementini (1616), che dell’inizio di tale decadenza indica tempi e protagonisti: “ ...era fin dall’anno mille quattrocento novanta due principiata la fine della città nostra, il precipizio de’ cittadini e l’esterminio de’ signori d’essa (...) benché le ruine delli Stati spesso hanno ragioni occulte, atteso che Isabetta [Aldobrandini] da se medesima disposta e da alri sollecitata al risentimento (...), mon molto d’intoppo ritrovò per concitar l’animo del giovane figlio, il qual prima col dar adito à gli omicidi, fu necessitato poi a permettere diversi altri misfatti (...)”.
Ed infatti nella pala, all’estrema sinistra, sicuramente non a caso in posizione più elevata rispetto a figli e nuora, troviamo ritratta proprio madonna Elisabetta, a vegliare sulla famiglia, devotamente inginocchiata al cospetto dei santi.


Ma chi fu allora questa donna così “fatale” per il destino della città e della Signoria?
Per chiarire la questione, occorre evidenziare che fu quasi necessità di ogni signore rinascimentale tenere presso di sé – oltre alla riconosciuta consorte - una serie di concubine, le quali potevano fornire uno stuolo di figli bastardi che, legittimati all’occorrenza, assicuravano discendenza certa alla Signoria.
Tale fu il caso, ad esempio, di Roberto Malatesta, signore di Rimini e a sua volta figlio di una concubina di Sigismondo Pandolfo, il quale, con il proprio valore militare, risollevò lo stato malatestiano dalla crisi in cui era precipitato alla morte del padre.
Egli stesso, non mancò di procurarsi amanti, destreggiandosi, in verità, con una certa disinvoltura.
Tra esse, almeno due, Elisabetta Aldobrandini ed Elisabetta Degli Atti furono infatti rapite ai propri mariti, i quali rischiarono non poco, tant’è che il primo della Degli Atti fu trovato “misteriosamente” impiccato, mentre il secondo (che evidentemente aveva trovato il coraggio di sposarla) se la cavò con la prigione e l’esilio.


Nel novero delle varie amanti, fu tuttavia Elisabetta Aldobrandini a rivelarsi personaggio decisamente particolare. Secondo i cronisti del suo tempo, fu donna di bellezza eccezionale, in grado di essere grandemente ammirata ancor non più in giovane età.
Per quel che ne sappiamo poi, di fronte al brutale passaggio dallo status di onorata moglie di un gentiluomo faentino a concubina di Roberto, la donna, per così dire, non fece una piega.
D’altra parte, quale figlia di Obizzo Aldobrandini, condottiero della Serenissima e collega di Roberto Malatesta, probabilmente sapeva come andavano certe cose e, piuttosto che rimpiangere il tranquillo passato, si dispose a trarre il massimo profitto dalla nuova situazione, cercando di attrarre il più possibile verso di sé le attenzioni del signore.


La grande occasione le si presentò alla morte di Roberto, quando il Papa dispose la legittimazione di Pandolfo, figlio di Elisabetta, che divenne unico erede maschio e titolare alla Signoria.
Per una decina d’anni l’Aldobrandini fu così reggente della città, assieme a Raimondo e Galeotto Malatesta, appartenenti ad un ramo minore della stirpe malatestiana.
Quando però il figlio fu abbastanza grande, allora il palazzo che Roberto aveva donato ad Elisabetta fu al centro di diverse congiure che videro il massacro degli altri reggenti e di loro famigliari ( a questi avvenimenti si riferiva specificamente il succitato passo di Clementini).
A quel punto il campo era libero ed il figlio, non educato a reggere lo Stato bensì utilizzato come semplice strumento del potere della madre, si lasciò andare ad eccessi di ogni genere.
Questo, naturalmente, avveniva sotto il controllo di alcuni parenti dell’Aldobrandini affluiti a Rimini i quali, come lei privi di interesse al buon governo cittadino, si curavano che nulla interferisse con il suo potere.


Altri potentati tradizionalmente alleati dei Malatesta assistevano da tempo con preoccupazione alla degenerazione del sistema di governo che aveva retto la signoria riminese dalla fine del XIII secolo, quando Elisabetta morì, all’incirca tre anni dopo il compimento della pala del Ghirlandaio che la ritrae.
Ne conseguì che Pandolfo, lasciato a se stesso, condusse la situazione a livelli insostenibili divenendo oggetto di una congiura fallita, cui seguirono ritorsioni sanginose.
Ma a quel punto, equilibri secolari si erano ormai infranti e, nell’anno 1500, fu sufficiente la notizia dell’arrivo di Cesare Borgia per determinare la conclusione del dominio malatestiano e l’allontanamento di Pandolfo da Rimini. I suoi successivi tentativi di rientro, perpetrati per circa due decenni, non fecero altro che inasprire un vortice di vendette e faide perdurato per buona parte del XVI secolo, mentre la popolazione fu soggetta a saccheggi ripetuti.


E’ comprensibile allora che, appena possibile, si tentasse di rimuovere la memoria di questo tragico periodo, cancellando i segni degli antichi signori e pure il Tempio malatestiano fu salvato in extremis dal furore della plebe.
Ma, notoriamente, ciò che viene nascosto è destinato prima o poi a riemergere e ciò appunto accadde quando, dalla quieta atmosfera rinascimentale del dipinto del Ghirlandaio, dopo tanti secoli, il restauratore per primo vide apparire le fattezze di protagonisti di un tempo oscuro, quando si era avviata una decadenza che portò – per dirla con le parole di Clementini- “la fine della città nostra” ed “il precipizio de’ cittadini”.


Possiamo infine aggiungere che, assieme all’aspetto degli antichi signori, ad essere riscoperto da Felisati fu anche il messaggio che essi intendevano comunicare pubblicamente, apparendo in postura devota, ai piedi dei santi protettori della peste; capiterà senz’altro in futuro di spendere qualche parola pure su questo tema.


Pier Giorgio Pasini, La pinacoteca di Rimini, Silvana Editoriale, Milano, 1983, pp. 92 – 96.
G. Fattorini, L’ultima commissione toscana dei Malatesti: la tavola ghirlandaiesca per San Cataldo, in: La signoria di Pandolfo IV Malatesti (1482 – 1528), a cura di Gian Ludovico Masetti Zannini e Anna Falcioni, Bruno Ghigi Editore, Rimini, 2003, pp. 193 e ss.
Anna Falcioni, La donne di Casa Malatesti, Rimini : Ghigi, 2005, pp. 455 e ss.


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