Don Ugolini, un prete che non aveva paura della realtà

Martedì, 01 Ottobre 2019

«È la realtà, ed io non ho paura della realtà». Con un sorriso pacato e un piglio deciso don Giancarlo rispose all’osservazione di una ragazza durante un’assemblea di studenti delle scuole superiori, nell’autunno del 1981, durante la quale stavano emergendo varie criticità: «Ma come fai a sorridere tranquillo? È due ore che stiamo parlando di cose che non vanno!».

«Non ho paura della realtà!». Fu per me lo spalancarsi di un orizzonte nuovo in quanto si trattò di una risposta laica e per nulla clericale, che non faceva appello ad un ulteriore scatto di devozione o di impegno personale rispetto a dinamiche associative che, grazie a Dio, andavano in crisi, ma spostava la questione sull’unico piano ragionevole ed umanamente interessante, quello della vita, senza aver bisogno di buttare via niente: dunque anche di me non c’era da scartare nulla, neppure il disagio che io stesso, allora quindicenne, gridavo nella medesima assemblea.

Eppure quell’uomo aveva le sue paure. Pochi mesi prima in un campo di GS, a Corvara in val Badia, fu disarmante nel rispondere ad un altro amico che gli chiedeva se avesse paura della morte. Anche in questo caso si trattò di una risposta puramente laica: «Sì, ho molta paura della morte, sono così abituato alla vita, educato ad una passione integrale per la vita, che non riesco a pensare alla morte». Ancora una volta a tema era la vita e non una spiegazione cristiana di essa, senza peraltro dover censurare le contraddizioni che ci portiamo addosso. Questa era l’apertura di fondo, che caratterizzò la ripresa di una sua conduzione diretta di GS, decisiva per il mio percorso in quegli anni. A tema era sempre la vita, la possibilità di un gusto vero dell’esistenza nella sfida continua ad una verifica personale. Questa laicità segnò anche un colloquio con lui del quale ricordo il giorno e l’ora precisi e in cui identifico il chiarirsi definitivo del riconoscimento che Cristo è tutto. Durante il Campo di GS del giugno 1982 a Moena di Fassa, don Giancarlo lesse il tema di una ragazza la quale, con una suggestiva immagine, affermava che tra lei e la realtà era come se vi fosse un vetro trasparentissimo, che le permetteva di vederla in tutta la sua bellezza ma che, al tempo stesso, le impediva di abbracciarla e gustarla fino in fondo. Mi sentivo totalmente descritto nel mio bisogno e don Giancarlo fece un’affermazione tanto semplice quanto radicale: «Cristo è Colui che può rompere questo vetro». Fu un lampo che descrisse quello che stava accadendo nell’esperienza che vivevamo, la possibilità di abbracciare e gustare la realtà integralmente, senza dover scartare nulla. Si trattava di una intuizione iniziale, ma già densa della certezza definitiva: «Cristo è tutto!». Anche qui era a tema la vita: Cristo è tutto perché è LA vita, risposta all’esigenza di abbracciare e gustare la realtà nella sua interezza.

Ci può essere un’affermazione così laica e così cristiana al tempo stesso?

Nella stessa prospettiva don Giancarlo raccontava della decisività del suo incontro con don Giussani e il carisma del movimento, che costituisce l’ultima parola sulla sua esistenza, una obbedienza che lo ha reso fecondo ed ha attraversato ogni suo limite. Mi ricordo con chiarezza, negli anni in cui frequentavo il Seminario e mi preparavo a diventare sacerdote, quando, rivolgendosi a un gruppo di seminaristi, disse: «quello che mi ha dato una vera e propria struttura umana è stato l’incontro con il carisma di don Giussani».

Questa laicità è il tratto che evidenzia l’attualità dell’esperienza di don Giancarlo, fiorita nella sequela al carisma donato alla Chiesa e al mondo nella storia di Comunione e Liberazione. Come il Papa ci richiama continuamente facendo riferimento al «cambiamento d’epoca» che stiamo vivendo, se il cristianesimo non si ripropone come esperienza sperimentabile in quella realtà che è più grande dell’idea, esso sarà sempre percepito estraneo rispetto ai problemi e alle domande degli uomini e delle donne del nostro tempo. Occorre lasciarsi interpellare dalla realtà e provocare dalla domanda umana che emerge nell’impatto con essa, avendo a cuore la vita concreta delle persone, prima della proposta di qualsiasi contenuto, che, senza questo realismo e questa concretezza, facilmente si riduce ad un’affermazione ideologica.

La grazia di questo tempo, per cui sono lieto di vivere in questa epoca, consiste precisamente nel richiamarci all’essenziale del cristianesimo, come espresse con chiarezza don Giussani intervenendo al Sinodo sui laici del 1987: «L’uomo di oggi attende forse inconsapevolmente l’esperienza dell’incontro con persone per le quali il fatto di Cristo è realtà così presente che la vita loro è cambiata. È un impatto umano che può scuotere l’uomo di oggi: un avvenimento che sia eco dell’avvenimento iniziale, quando Gesù alzò gli occhi e disse: “Zaccheo, scendi subito, vengo a casa tua”». Si tratta della «semplicità e concretezza del Vangelo» di cui parla il Papa: non abbiamo altra chance se non il rinnovarsi della stessa esperienza di Zaccheo, ovvero una umanità che rifiorisce attraverso un imprevedibile incontro in cui accade di incrociare lo stesso sguardo, e nella quale si riverbera la medesima attrattiva. È qualcosa che né la Chiesa né tantomeno ciascuno di noi può presumere di possedere, ma uno sguardo da mendicare, una Misericordia che costituisce il «caldo abbraccio del Mistero» di cui amava parlare don Giancarlo. La Chiesa stessa è «il Mistero di questo sguardo» (Francesco) e solo questa novità, sorpresa in una concreta esperienza carnale, costituisce la sua forza autentica, tanto più nel nostro tempo.

Julián Carrón, Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, che giovedì prossimo, 3 ottobre, alle 19.30 nella chiesa di S. Agostino presiederà la Concelebrazione eucaristica nel decimo anniversario della morte di don Ugolini, ci ricorda che «la rilevanza, l’incidenza storica di una presenza, non dipende dai numeri, bensì dalla sua diversità».

Don Giancarlo ce lo ha testimoniato anche nella sua malattia, quando, nel modo stesso di guardare alla singola compressa che doveva assumere, testimoniava il suo rapporto con la realtà, riconosciuta e abbracciata nel suo essere segno del Mistero. Proprio negli ultimi giorni diceva di se stesso: «qui c’è un prete che muore da laico». Appunto, fino in fondo laico, perciò fino in fondo prete.

don Roberto Battaglia

assistente ecclesiale di Comunione e Liberazione a Rimini