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Quando prevale il "demone"della divisione

Lunedì, 26 Febbraio 2018

 Eccoci. È andata. A forza di spostare l'asticella ogni giorno un pochino più il là, alla fine ci siamo arrivati: il punto di non ritorno è qui. L'Italia, come l'abbiamo conosciuta, non c'è più. Ce ne sono due, forse tre, magari quattro. O chissà quante altre ancora. I fatti di Macerata e quel che ne è disceso a cascata, con tutta la loro drammaticità, hanno certificato - marchiandola a fuoco - la realtà di un Paese spaccato, diviso: un insieme di tribù diversissime tra loro. Incapaci di comunicare, di confrontarsi se non con la rivendicazione rabbiosa delle proprie ragioni. Del proprio credo.
   Un insieme di tribù che si scambiano reciproco disprezzo cucendo di livore sordo  la quotidianità, in prima battuta, attraverso il macrocosmo della Rete. Dei social network. Casse di risonanza che amplificano a dismisura prese di posizione cieche, sberleffi, incoerenze assortite spacciate per verità assolute.
   Quel tessuto sociale intriso di solidarietà, di spicciolo buonsenso che ha tenuto insieme l'Italia anche nei periodi più bui - quelli del terrorismo e dello stragismo, della P38 adagiata su un piatto di spaghetti da un settimanale tedesco - sembra essersi dissolto o, quanto meno, assottigliato. Fagocitato da una frammentazione tra gruppi e gruppetti che esibiscono, con orgoglio, la loro alterità senza alcun desiderio di confronto.
   Dal Web rotolano nella realtà di ogni giorno fascisti o pseudo tali, antifascisti o pseudo tali; pro-vax o pseudo tali, free-vax o pseudo tali; sostenitori di una parte politica e dell'altra o pseudo tali che non riconoscono reciprocamente alcun valore, alcun impegno, alcuna buona fede. Che non perdono occasione per attaccare a testa bassa, dialetticamente, senza sconti. Certi della bontà assoluta della propria posizione. E della assoluta manchevolezza di quella altrui.
   Mondi distantissimi avvicinati - quello sì - solo dall'attacco, più o meno greve, lanciato da un fronte all'altro della Rete, prima. Dalle piazze, poi.
  L'immagine plastica della divisione in un periodo storico, invece, in cui dovrebbe andare di moda, l'unità di intenti in un Paese gravato da un debito pubblico inimmaginabile - e improbo da aggredire per chiunque -; da un fenomeno migratorio difficile da gestire; da forti disuguaglianze; da un quadro politico instabile; da regole che andrebbero riscritte, in diversi ambiti, per liberare l'economia di una nazione ancora ai vertici europei sul fronte manifatturiero. Frangenti che dovrebbero spingere a trovare punti di contatto, in nome del bene comune. Ché se ci si salva, ci si salva tutti. Difficile farlo -  salvarsi - a pezzi.
   Ma a naso, ormai, siamo al punto di non ritorno. Quello in cui non ci si fida più dell'altro, di chi si ha dinnanzi. Perché chi si ha dinnanzi, se non la pensa a mio modo, non pensa affatto. O, piuttosto, pensa male.
   Perché se ci fosse una classifica dedicata all’insulto più urlato in Rete o biascicato al tavolino di un bar, in uno scompartimento ferroviario a vincere, anzi a stravincere, sarebbe buonista. E a mani basse. Anzi, bassissime. Qualunque cosa voglia dire, qualsiasi cosa significhi.

Gianluca Angelini

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