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I consiglieri "poveri" producono una povertà della politica

Venerdì, 03 Novembre 2017

Ha tenuto banco per qualche giorno la vicenda di Fabio Ubaldi, consigliere comunale di Patto Civico a Riccione e nel 2014 candidato sindaco per il Pd, che in un primo momento aveva deciso di sottrarsi all’obbligo di legge di presentare la propria dichiarazione dei redditi. Il clamoroso rifiuto ha sollevato un vespaio di polemiche (alimentate soprattutto dal suo ex partito) e alla fine anche Ubaldi è convenuto a Canossa e ha mostrato la sua dichiarazione del 2016: in quell’anno ha avuto un reddito di 3.841 euro.

E così Ubaldi, imprenditore di successo, si vede accomunato agli altre sette consiglieri (su 30) che sono al di sotto della soglia di 10 mila euro di reddito. Ubaldi aveva cercato di giustificare il suo rifiuto di dare pubblicità ai sui redditi per rispetto della privacy dei soci con cui lavora e per non dare adito a operazione di sciacallaggio. Una motivazione che non stava in piedi (la legge non chiede di rendere noti i redditi dei soci), e infatti non ha retto più di due giorni.

Non sappiamo e non ci interessa sindacare perché Ubaldi abbia avuto nel 2016 un reddito così basso, dieci volte inferiore a quello che denunciava negli anni passati. Quel che colpisce a Riccione, ma anche a Rimini, è la numerosa compagnia con cui Ubaldi si trova. Otto consiglieri su trenta sotto la soglia dei 10 mila euro rappresentano il 27 per cento, quasi un terzo del consiglio. Oltretutto, vi sono addirittura due consiglieri con reddito zero, ed anche in giunta abbiamo un assessore al bilancio che per sé gestisce un “bilancio” di appena 1.219 euro.

Dall’altra parte del Marano, a Rimini, la situazione non è che sia molto diversa. Nove consiglieri su quaranta hanno un reddito inferiore a 10 mila euro, undici sotto i 15 mila euro.

I “poveracci” sono soprattutto nel gruppo del Pd (5 su 13) e di Patto Civico (2 su 5) ma in generale, tranne qualche eccezione, non ci sono redditi che fanno pensare ad una situazione economica florida.

E questo suggerisce alcune considerazioni sullo stato della politica. Fino a dieci, quindici anni fa, in consiglio comunale arrivavano persone che nella vita personale avevano già raggiunto obiettivi significativi. Professionisti stimati, piccoli imprenditori con un’attività ben avviata, dipendenti con un posto sicuro. Farsi eleggere in consiglio comunale era un po’ per aggiungere un cursus honorum pubblico a quello già realizzato in campo privato. Chi aveva un mestiere od era ben avviato nella professione, pensava così di dare il proprio contributo alla vita pubblica, immettendovi la propria esperienza.

Oggi questa tipologia di persone sembra rifuggire dall’attività politica. Gli eletti sono tali perché inseriti nelle liste dai partiti, la prima selezione la fanno i partiti, gli elettori scelgono fra la rosa che gli è offerta. E questo è un particolare che dice molto sull’attuale capacità dei partiti di rappresentare e interpretare il meglio della società civile.

Molto, certamente, dipende dal clima di antipolitica che si respira nel Paese da Mani Pulite in poi. Se la cattiva politica, che non è mancata a Rimini come a Roma, ha fatto di tutto per respingere le migliori energie intellettuali e morali, non si può non osservare la curiosa eterogenesi dei fini che ha prodotto l’antipolitica. Si è allontanato dalla scena pubblica chi poteva vivere del proprio e abbracciava la vita politica per servizio o, perché no, per ambizione personale, e si è avvicinato chi è senza un mestiere o una professione e l’unico reddito che denuncia è in larga parte formato dai gettoni di presenza in consiglio e in commissione. L’antipolitica, che ha avuto fra i suoi bersagli chi usa la politica per arricchirsi, ha insomma generato una classe dirigente che tira a campare solo grazie alla politica. A livello nazionale il caso emblematico è il gruppo parlamentare dei 5 Stelle, dove abbondano i giovanottoni che sono passati dalla disoccupazione o dalla precarietà allo scranno di deputato.

Il guaio è che questa eterogenesi dei fini produce un risultato che è sotto gli occhi di tutti, l’impoverimento culturale della classe politica. Per rendersene conto, basta seguire qualche consiglio comunale, dove il contributo di molti eletti si limita a votare quando richiesto.

Questi eletti, nella maggior parte, non hanno partiti organizzati e strutturati alle spalle. Se guardiamo quella che per comodità di definizione chiamiamo Prima Repubblica, a quel tempo l’attività politica cittadina era saldamente in mano ai dirigenti dei partiti, e in consiglio comunale arrivano le seconde file che comunque erano molto più formate rispetto agli attuali rappresentanti. Sfasciatosi il sistema dei partiti, gli unici rimasti a fare politica sono gli eletti nelle istituzioni, con le caratteristiche e le conseguenze che abbiamo visto.

Quando leggeremo che fra i consiglieri comunali sono spariti quelli a reddito zero o al limite della soglia di povertà, sarà il segnale che qualcosa di nuovo sta emergendo anche nella politica.


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